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RELAZIONI
 
 
Self empowerment in ambito professionale
Il sogno attraverso il gruppo allargato
Serata di Playback
Un'idea di mondo che dà senso al nostro metodo
Laboratorio di analisi transazionale
Spunti di riflessione a partire da un'esperienza di psicodramma analitico
Echi di Attiva Mente
Workshop di psicodramma analitico, alla ricerca delle proprie radici attraverso l'analisi del transgenerazionale.
Come se essere nomadi tra gruppi e gruppalita'
Il conflitto come risorsa
Laboratorio di playback theatre "nel cuore delle storie" .
La nostra partecipazione ad Attiva Mente
Psicomotricita'
Il viaggio, metamorfosi e crescita
Forme espressive nel playback theatre
Tutto su vostra madre e vostro padre. La co-conduzione nello psicodramma moreniano (1).
Tutto su vostra madre e vostro padre. La co-conduzione nello psicodramma moreniano (2)
Un pomeriggio di esperienza attiva
Sapere inedito nella cura
Tele versus Transfert
Considerazioni sulla sessione aperta di psicodramma
Sistema biodanza
L'Arteterapia in Italia
Seminario di danza contatto improvvisazione
 
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Riportiamo qui di seguito, in ordine alfabetico (per autore), alcune relazioni che alcuni conduttori di Attiva Mente ci hanno gentilmente inviato.
 
Testimoniano solo di una parte (neanche molto ampia) dei quasi 50 laboratori che sono stati condotti ad Attiva Mente.
 
Noi abbiamo sollecitato tutti i direttori di laboratorio ad inviarci una loro sintesi.
Purtroppo solo alcuni hanno gentilmente assolto a questo compito.
 
Pazienza.
 
Si dice che quanti si occupano di tecniche attive abbiano poco tempo per scrivere.
 
In ogni caso: il campione di resoconti che viene raccolto qui (in qualche caso non senza una certa insistenza, di cui ci scusiamo) può aiutare a rendere l'idea.
 
Del resto: l'obiettivo di Attiva Mente era di fare, più che di teorizzare.
 
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Self empowerment in ambito professionale
 
Chiara Baratti
c.baratti@iol.it
 
 
Metodi attivi di origine psicodrammatica. Questa è la formula con cui, in genere, mi presento in azienda. E solo un osservatore attento può riconoscere i criteri fondamentali dello psicodramma, utilizzati in un gruppo di formazione all'interno di un simile contesto.
Bandito il termine psicodramma, che richiama subito l'aspetto terapeutico, va detto che anche l'attività/spontaneità viene messa in gioco gradualmente e tenendo conto delle regole non scritte, che - di solito sono alla base delle relazioni interpersonali in ambito organizzativo. Il contatto fisico e il gioco possono entrare a nutrire il lavoro solo quando il gruppo si è in qualche modo formato e ha riconosciuto il conduttore; si è, cioé creato un clima di fiducia reciproco, sufficiente ad accettare qualcosa che altrimenti verrebbe visto come minaccioso e/o svalorizzante il lavoro.
Questa premessa vale per qualunque tipo di titolo abbia il corso, dalle problematiche relazionali all'addestramento al ruolo.
Nel caso dell'empowerment va aggiunta una particolare attenzione nell'arrivare alle problematiche più personali, perché come si può immaginare la disponibilità a mettere in discussione il proprio modo di lavorare (e quindi se stessi) non è assodata per tutti i partecipanti, anche se hanno accettato di partecipare a un corso di questo genere. Nessuno di loro immagina prima quanto dovrà metterci di suo!
Accenno qui soltanto all'importanza fondamentale del lavoro di preparazione da farsi con l'organizzazione in fase di progettazione del lavoro, di verifica ecc. Un corso di questo tipo, infatti, che ha come focus l'individuo e l'espansione delle sue potenzialità, ha delle forti ripercussioni sulle sue relazioni professionali e sull'assetto organizzativo.
L'obiettivo di questo lavoro non è tanto quello della costruzione di ruoli nuovi, ma piuttosto quello della ristrutturazione di ruoli esistenti.
La ristrutturazione avviene grazie a un lavoro di consapevolezza e elaborazione delle proprie rappresentazioni simbolico-affettive degli altri significativi del proprio atomo sociale, dei temi importanti del proprio lavoro ecc.
Nel merito del workshop, tenuto venerdì 15/9/2000:
Il clima iniziale ha risentito di una serie di problemi organizzativi: il fatto di essere in una sede lontana dall'Università ha comportato un ritardo di 30 minuti nell'inizio del lavoro e inserimenti di nuove persone a distanza di 20 minuti l'una dall'altra. Non ci è stato, alla fine, il tempo di fare riflessioni metodologiche e teoriche sul lavoro svolto. In totale il gruppo era composto da 7 persone.
Sequenza delle attività:
- Presentazione di tutti e del conduttore (nome, tipo di lavoro, aspetti personali ritenuti interessanti per farsi conoscere meglio).
- Definizione del tema del corso attraverso uno scambio fra i partecipanti e la lettura di uno schema delle caratteristiche della persona empowered, proposto da C. Piccardo nel suo libro Empowerment.
- Conoscenza del gruppo attraverso attività sociometriche(l'ultima delle quali mirava a far riconoscere nel gruppo chi lavora in una organizzazione, chi lavora autonomamente e chi in una forma mista.
- Scambio di esperienze in coppie, formatesi secondo similitudine sulla base del criterio precedente.
- Restituzione al gruppo intero degli aspetti caratterizzanti il proprio lavoro, emersi nel confronto a due.
- Lavoro prima grafico (fatto da tutti su un foglio di carta) e poi in azione (scelto un protagonista) sull'atomo sociale professionale, come esempio di come problematiche quali quelle emerse precedentemente (autonomia personale in rapporto all'autorità) vengono concretizzate e viste nel contesto relazionale.
- Sharing, ovvero condivisione emotiva con il protagonista da parte dei membri del gruppo. Dopo aver assistito e partecipato come ausiliari alla rappresentazione dell'atomo sociale del protagonista, gli altri del gruppo esprimono aspetti importanti della propria esperienza proprio a partire dagli stimoli avuti.
Questo momento permette al protagonista di non sentirsi il solo ad aver scoperto le carte e di ricevere contributi dagli altri, al gruppo di conoscersi reciprocamente e aumentare la coesione. Tutti hanno sperimentato conflitti ed emozioni simili.
La sociometria.
E' uno strumento chiave dei metodi d'azione, inventato da J.L.Moreno per misurare e valutare le relazioni esistenti nei gruppi sociali. La sociometria è lo studio fenomenologico delle scelte interpersonali delle persone. Le esplorazioni sociometriche osservano e intervengono nei naturali processi di attrazione/repulsione all'interno di un dato gruppo sociale. Obiettivi della sociometria sono:
- aumentare la coesione e la produttività del gruppo
- aumentare la consapevolezza, l'empatia, la reciprocità e le interazioni sociali
esplorare gli schemi di scelta sociale e ridurre i conflitti
rivelare le dinamiche di gruppo manifeste e nascoste.
 
 
 
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Il sogno attraverso il gruppo allargato
 
Anna Maria Traveni
Adriana Corti
Monica Manfredi
Maria Luisa Tapparo
cospesvcive@pcn.net
 
 
Il luogo: una cappella cristiana, utilizzata per il culto nei mesi invernali, dalla forma circolare, avvolgente, sacrale.
Il tempo: gli ultimi giorni della prima estate del millennio, in un pomeriggio di sole.
I partecipanti: sconosciuti fra loro, per la maggior parte, si ritrovano insieme a condividere un comune interesse per il sogno, il gruppo e le loro dinamiche. Dalle iscrizioni dovrebbero giungere trenta persone: ci si orienta verso una configurazione gruppale medio-grande. Giungono invece nove persone, per cui si passa ad una veloce riconversione delle attese e configurazioni mentali precostituite.
Le conduttrici: psicoterapeute-gruppoanaliste, membri di un gruppo di lavoro che da oltre due anni conducono ricerche sui large group: Anna Maria Traveni, coadiuvata da Adriana Corti, Monica Manfredi, Maria Luisa Tapparo.
Lo stimolo Attivatore per le Menti:la lettura di una poesia di Adriana Dentone, il cui testo è stato offerto ai partecipanti:
Semina
Acqua che scava con l'aratro
Acqua di sorgente irriga
Terreni coltivati;
dal grembo della terra
l'anima della vita.
Ricerca e fantasia illuminano
Nella freschezza del giorno
Aratro e acqua scavano,
disseminata terra fiorisce,
campagna nella luce di colori.
Doni: tralcio che sfiora
Steli della spiga in comunione
Petalo che si unisce ad altri petali
Germoglio che crea frutti.
Profondo dono il significato.
Così ha avuto inizio un profondo e significativo incontro, nell'ambito di quell'esperienza multistrutturata che è stata AttivaMente.
E proprio di semina si è in realtà trattato, con la interessante caratteristica (tipica di ogni gruppo di lavoro che funzioni) che, dopo poche battute, chi era partito con il ruolo istituzionale di seminatore, diventava terra da inseminare, mentre chi si era inizialmente posto come terreno, unicamente disposto a raccogliere e a mettere da parte per tempi migliori, si ritrovava, a volte anche a sorpresa, ad essere fecondo di spunti fertili per il pensiero degli altri.
Questa interscambiabilità di ruoli, per cui non si è rimasti mai identici a se stessi, è stata possibile grazie al concedersi di tutti un oscillare fra posizioni di dono e di accoglimento, rimanendo sufficientemente lontani da una strenua rigidità che, come insegna il tralcio, può essere foriera di rotture molto devastanti.
Tralcio in effetti è stata la prima parola del gruppo, il primo indicatore di direzione da cui si è snodata la catena associativa del pensiero di gruppo; tralcio di cui si è subito sentita la necessità di allontanarsi dall'assonante tralcio (inteso come taglio netto), preferendo invece il percorrere la più interrogativa strada dell'associazione con in-tralcio.
I partecipanti hanno così riflettuto su come il gruppo possa in effetti essere un luogo dove gli intralci sono frequenti, fino a diventare snervanti, quando i diversi tralci si avviluppano troppo gli uni agli altri, diventando una cortina di liane soffocanti e sbarranti ogni possibile cammino.
Il concetto di invasione, di difficoltà per la sopravvivenza di ognuno, è emerso chiaro, supportato anche da riferimenti del sociale: le recenti Olimpiadi, simbolo di pacificazione e unione tra i popoli, si sono svolte in una terra dove la popolazione indigena sta ancora rivendicando i propri diritti di nascita e di potere. Ci si domanda quanto ci sia di reale, quanto di utopistico, quanto siamo effettivamente disponibili a innestarci con l'estraneo, quanta possibile ipocrisia questi messaggi nascondano.
Parlare di nazioni lontane come l'Australia ha permesso un più graduale avvicinamento al qui e ora dell'esperienza, e si è così arrivati a poter vedere come anche la dimensione apparentemente più ridotta come la piccola comunità-gruppo non è immune da movimenti di invasione e di contrattacco difensivo. L'aggressività infatti, ha potuto non solo emergere, ma essere osservata, discussa, attraversata con la libertà di poter dar voce a una varietà di punti di vista e di emozioni da cui far scaturire un significato non univoco, ma rispettoso della complessità della mente. Ognuno ha così potuto vedere quale fosse il proprio schieramento e da in-tralci si è transitati verso innesti.
Può uno stesso albero essere portatore di due, tre specie diverse? Le sue radici riescono a passare indenni attraverso il carico di una doppia, plurima appartenenza e/o origine?
Nuovamente si parla di qualcosa fuori, per arrivare a contattare altro dentro. Parlando di alberi, di natura apparentemente forzata arrivano i frutti: i sogni del gruppo. Sono ricordi di esperienze oniriche che parlano ancora di semine, di coltivazioni, in vaste estensioni o in piccoli vasi, di paesaggio brullo che rinverdisce, di piccolo albero che cresce in modo smisurato, di scavatrice che estrae cadaveri dal terreno, ma l'atmosfera non è terrificante e ciascuno può riconoscere in quei corpi i propri antenati.
Sogni che stimolano molti interventi: poter scavare le proprie radici con l'intuizione che questa ri-appropriazione non isoli, ma unisca il gruppo. Crescita come espansione che affascina e spaventa: non diventerà un albero troppo grande? Cosa distruggerà, anche inconsapevolmente durante questa espansione? Semi gettati nel mezzo del cerchio come offerta, occasione, possibilità del germogliare di un dialogo, ma anche come tentazione di appropriarsi di tutti i possibili germogli, di prendere senza saper dare, di parlare senza riuscire ad ascoltare.
Pianta è sia cosa cresce sopra, sia cosa ramifica sotto terra: cioè una parte aerea visibile cui corrisponde una gemella parte ctonia: non è forse lo stesso per ogni essere umano, in cui ad una parte consapevolmente espressa corrisponde una altrettanto estesa sorella inconsapevolmente (a volte) fondante? E come nella pianta nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere il primato della parte fuori terra a discapito di quella sotterranea, così nell'uomo le due parti (ognuna a sua volta composta da innumerevoli ramificazioni) sono co-protagoniste nel formare la sua interezza ed integrità.
Gli innesti possono essere quegli apporti che arricchiscono di nuova linfa l'albero genealogico di ognuno, pena un isterilimento, frutto di incroci fra troppo simili con-sanguinei .
L'immagine della struttura dell'albero ben presto trascolora nel gruppo in una evocazione della clessidra, in cui il fluire rappresenta il mezzo per misurare il tempo. Il passato può così essere recuperato per fornire al futuro, materiale su cui costruire. La variabile tempo è anche quella che fornisce una cornice all'agire dell'uomo e anche l'esperienza di questo gruppo non può sottrarsi alla necessità di una cornice temporale in cui un prima viene diviso da un dopo, grazie alla produttività di questo durante.
Le appartenenze di ogni partecipante, assieme agli stereotipi da cui ognuno necessariamente era partito, in questo durante si sono potute intrecciare con quelle dell'altro, secondo una modalità dinamica e non soffocante, che passa attraverso l'accettare che il chiedere all'altro la traduzione della propria lingua e delle proprie credenze, non significa rischiare una perdita, ma ricercare un amplificante, meticciante innesto.
 
 
 
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Serata di Playback
 
Nadia Lotti
Nadia.Lotti@provincia.so.it
 
 
Carissimi amici del Playback e dello Psicodramma, colleghi, spettatori, e a tutti gli interessati, sabato 16 settembre ho condotto la performance di Playback Theatre al teatro Carignano di Torino, nell'ambito di AttivaMente, e mi sta particolarmente a cuore farvi conoscere i miei vissuti, i pensieri e le riflessioni riguardo a questa esperienza, certa che sarà senz'altro utile anche ad un mio maggiore chiarimento.
All'inizio un'emozione grandissima all'impatto con una situazione assolutamente nuova: un vero teatro, il grande Carignano.
Sono grata per la sensibile disponibilità da parte dello staff tecnico e tutto il personale del teatro, alle prese con una compagnia un po' sprovveduta e maldestra nell'uso degli elevati mezzi tecnici, che mi ha permesso di sentirmi facilmente a mio agio.
Abbiamo così lavorato insieme il pomeriggio di sabato, (un gruppo composto da tutte le persone con esperienza di Playback interessate alla performance, e un ospite esterno) in un clima, a mio avviso, caldo e costruttivo.
Insieme si è deciso di costituire, per la performance della sera, un gruppo di attori misto per provenienza ed esperienza.
Come conduttore ho definito alcune regole ed accorgimenti che utilizzo solitamente con la mia compagnia e che sono frutto di un percorso di crescita di diversi anni, ma che per gli attori di quella sera costituivano in gran parte una novità.
Ho chiesto agli attori di assumersi il rischio di osare una modalità un po' nuova, e loro l'hanno accolta con coraggio.
Ho così limitato la quantità dei materiali di scena a solo quattro teli, una corda, due bastoni e un cuscino (ritengo che l'uso eccessivo di teli e travestimenti limiti il senso di fiducia dell'attore nelle sue capacità espressive, favorendo una tendenza a realizzare macchiette e caricature di personaggi); sulla scelta dei ruoli da parte del narratore ho circoscritto il numero a due o tre personaggi principali caratterizzati in modo essenziale e ho chiesto agli attori non scelti di improvvisare quei ruoli che ritenevano di volta in volta funzionali alla rappresentazione della storia (questa essenzialità aiuta l'attore a prendersi in carico la storia, sviluppa il senso creativo e lascia ampio spazio all'improvvisazione); a conclusione nella narrazione e della definizione dei personaggi ho consegnato la storia agli attori e musicisti solo attraverso una breve frase, una sorta di titolo (solitamente la storia viene ripetuta sinteticamente dal conduttore prima di essere consegnata agli attori e ai musicisti che si ritrovano una storia già tratteggiata nelle sue parti essenziali).
Questi principi guida che ho adottato per la rappresentazione della performance si rifanno ad una visione del Playback che condivido e sostengo.
La finalità del Playback e quella di riuscire a coinvolgere la comunità-pubblico in una esperienza collettiva di condivisione delle storie personali e dove il narratore diventa un portavoce, un tramite per dialogare e sentire l'intensità della esperienza umana. Il ruolo degli attori è quello di interpretare la storia che è stata definita nelle sue linee essenziali cercando di andare oltre il suo senso letterale, cercando di scoprire quei significati nascosti che possono emozionarci, appassionarci e aprirci nuovi orizzonti.
Ma sabato sera, al Carignano non stato proprio così.
La performance è andata molto bene, gli attori sono stati molto bravi, il pubblico sembrava entusiasta, ma mentre piovevano gli applausi e gli apprezzamenti di tutti, colleghi, amici, io sentivo dentro di me una profonda delusione, tanto amara quanto l'entusiasmo dei rimandi esterni.
Quella sera, durante la performance, non ero riuscita a sentire un emozione profonda.
Quella sera abbiamo presentato un Playback che non è quello in cui credo. Abbiamo rappresentato le storie in modo a mio avviso troppo superficiale, cercando di esasperare il lato comico, e senza riuscire a esprimere l'intensità e la delicatezza che in tanti momenti avrebbe permesso a tutti noi coinvolti nell'esperienza di commuoverci e di percepire quel sentimento di intimità che tante volte mi ha appassionato al Playback.
Ora, passati alcuni giorni, riesco a vedere l'evento con maggiore lucidità e posso cercare delle spiegazioni.
Tanti possono essere stati i motivi che hanno indotto la compagnia Playback di AttivaMente a realizzare un Playback in uno stile un po' cabarettistico.
Provo ad esporli:
Gli attori (non sono delusa di loro, sia chiaro!) si sono trovati ad assumersi il rischio di improvvisare molto di più di quanto sono soliti. Per loro è già stato un compito difficile adattarsi alle nuove condizioni in un gruppo peraltro non affiatato ed allenato a lavorare insieme. Riuscire a cogliere i significati profondi della storia significa rischiare ancora maggiormente. Significa essere già allenati alla sintonia ed alla fiducia in questo senso.
Nel Playback la compagnia tende a rispondere specularmente alle richieste del pubblico. La situazione di quella sera, l'alto numero di spettatori, il serioso setting teatrale, non facilitava il senso di intimità e di profondità.
Alle risate del pubblico gli attori, compiaciuti, tendevano a rispondere accentuando ancora di più il lato comico e grottesco.
Ma una compagnia che si fida del Playback sa superare questa tendenza a mettere sul ridere, e sa sia esprimere la comicità, sia raggiungere momenti di profonda drammaticità.
Il Playback in Italia si è sviluppato prevalentemente nell'ambito dell'ambiente dello Psicodramma Moreniano (che peraltro stimo e al quale sono riconoscente per avermi fornito un egregio quadro di riferimento teorico nella gestione dei gruppi) e tende, secondo me, ad oscillare verso due direzioni.
Da una parte c'è la tendenza ad adattare il Playback alle modalità tipiche di contesti psicoterapeutici, e all'opposto si corre il rischio di considerare il Playback come una forma più leggera e divertente dello Psicodramma.
La sfida è dunque quella di trovare un giusto equilibrio tra questi diversi orientamenti per dare ad Playback Theatre una sua dignità: la dignità di riuscire a dare dignità alle storie personali.
Con affetto saluto tutti e ringrazio per l'interesse dimostrato.
 
 
 
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Un'idea di mondo che dà senso al nostro metodo
 
Massimo Rebagliati
mmlem2@tin.it
 
 
Ci sono aspetti del nostro comportamento o del comportamento altrui che non riusciamo a capire, anche se cerchiamo (e a volte ci riusciamo) di trovargli delle giustificazioni. Ci sono comportamenti umani che solo postulando l'esistenza di gravi disturbi nella relazione genitori-figli sembrano avere una parvenza di senso pur rimanendo ripugnanti. Ma che dire quando diventano "di massa"? Tutti genitori sadici coi propri figli?
Il progresso ci spinge a chiederci continuamente perché sopravvivano manifestazioni di crudeltà, ingiustizia, inciviltà, perché le economie evolute tendano sempre e comunque alla prevalenza del più forte. E' come se il desiderio di affrancamento da una condizione "animale" ci facesse "allungare il collo". Alla coscienza ripugna riconoscere come "parte dell'uomo" tutte quelle componenti che appunto vengono definite "bestiali", ma anche tutte quelle che appaiono eticamente "scorrette".
Forse ciò che può aiutarci a pensare all'Uomo in termini più comprensibili è ricondurne l'immagine a quella di un animale, magari molto evoluto sul piano tecnico (ma la tecnica non è un'esclusiva dell'uomo), con particolari organizzazioni e dinamiche sociali (ma la famiglia, il gruppo e le sue dinamiche non sono esclusivi dell'uomo), con modalità espressive relazionali ricche e varie (ma nemmeno queste sono esclusive dell'uomo).
Perché partire da un'immagine animale dell'uomo per parlare dell'aspetto educativo dell'analisi?
Perché il primo aspetto educativo dell'analisi è il lavoro di integrazione: il lento passaggio da un'immagine ideale, basata su negazioni o sottovalutazioni, a un'immagine integrata dell'essere umano, di se stessi.
Un altro problema che viene risolto dalla visione dell'uomo come animale è quello della responsabilità.
Se siamo animali, o comunque più vicino agli animali di quanto non crediamo, allora, per quanto il gruppo possa adoperarsi per noi (anche nelle forme istituzionali riconosciute), noi e solo noi possiamo essere i protagonisti di quella continua "battaglia per la vita" che è appunto la vita. Nessuno può affrontarla al posto nostro, per quanto, come cuccioli, ci comportiamo come se qualcuno, in qualche luogo, potesse proteggerci.
Qui entra in gioco il secondo aspetto educativo dell'analisi: la scoperta della responsabilità come conseguenza della scoperta dell'illusione di protezione in cui ci si crogiolava credendo che, "se non in famiglia, altrove un padre buono ci dovesse pur essere!" (senza pensare, per amor di logica: "Ma a lui chi fa da padre buono?").
Ma allora, cosa c'è di divertente nell'analisi?
Fine dell'illusione, fine del gioco, assunzione di responsabilità?
Questo è il terzo aspetto educativo dell'analisi: la possibilità di essere anche un padre buono per noi stessi, in un modo così intenso e dedicato quanto nessun altro potrebbe fare al posto nostro.
L'analisi è il luogo e il tempo in cui impariamo a seguire quella spinta ad evolvere senza negare la nostra realtà. Accediamo così a un nuovo, grande gioco: la costruzione di un'immagine, o una nuova immagine di noi stessi nel mondo, forse meno mitica, ma a volte meno brutta e molto più "praticabile" e "spendibile".
Il quarto problema risolto dalla visione dell'uomo come animale è un diverso sguardo verso l'altro e verso noi stessi. Chi ama osservare gli animali riconosce nel loro modo di stare o nel loro agire "per prove ed errori" una indefinibile "perfezione", una bellezza che sfugge alla classificazione, e sa bene che è questa misteriosa evidenza a renderli belli ai suoi occhi.
Imparare a guardare a noi stessi e agli altri nello stesso incantato modo, rompendo ogni tanto la routine dei giudizi o delle giustificazioni, è il quarto aspetto educativo dell'analisi ed è anche una fonte di grande gioia.
Pensare all'uomo come animale permette di porre il problema dell'ambiente in cui l'uomo è inserito in termini non solo di luoghi e rapporti da riconoscere e in cui essere riconosciuti, ma anche di curiosità, spinta all'esplorazione, attivazione di strategie di adattamento e innovazione.
Questo è il quinto aspetto educativo dell'analisi: uno spazio e un tempo in cui non solo essere compresi e comprendere i nostri bisogni, ma anche imparare a conoscere il rapporto col nostro ambiente, riconoscerne le dinamiche e trovare nuove strategie di risposta.
Infine, come è proprio dell'animale mettere in atto le potenzialità del "fare con" partendo dal più piccolo raggruppamento, la coppia, così nell'analisi impariamo a scoprire la forza dell'operare con l'altro alla costruzione di un percorso che, fra alti e bassi, balzi avanti e passi indietro, è comunque nuovo rispetto al già sperimentato relazionale e personale, ma nello stesso tempo condiviso.
Il nostro modo di lavorare non è stato da noi appreso così come si esplica oggi e probabilmente domani sarà ancora un po' diverso. Non c'è un contesto nuovo in cui noi siamo stati che non abbia cambiato qualcosa nel nostro "fare". Non ci dispiace sentirci animali che un giorno hanno "lasciato il branco" alla ricerca di nuovi luoghi, nuovi branchi, nuove persone... (M. Rossi)
Note sul metodo
La nostra presenza qui nasce dal desiderio di comunicare operativamente l'esperienza di due psicoterapeuti, uno psicologo e un medico, entrambi liberi professionisti, che si sono proposti di ampliare il proprio campo conoscitivo e d'indagine oltre lo spazio ristretto dello studio privato. Esperienza che si esprime attraverso un lavoro, di ri-cerca e di intervento, documentato dal 1984.
Si tratta di un percorso motivato da un desiderio che è anche un'esigenza: una comprensione più soddisfacente di dinamiche individuali, familiari e di gruppo, inerenti il rapporto con il potere e con la conoscenza.
Si tratta anche di una sfida conoscitiva, in base alla quale l'approccio psicodinamico sviluppato nello studio privato è stato sottoposto a una "verifica sociale" che ha messo alla prova la sua possibilità di modellarsi sulla complessità di si-stemi che manifestano istanze formative diverse, e di trasformarsi, quando è opportuno e necessario, da terapia in educazione, da presa in carico di problematiche a promozione di un miglioramento della qualità della vita.
Si tratta anche di una sfida epistemologica tra due istanze diverse: il "pensare per progetti" a confronto con il "pensare in seguito a problemi".
La nostra prassi si è evoluta con la revisione delle teorie in cui ci siamo formati.
Abbiamo percepito la teoria progressivamente allontanarsi dalla "vita reale" delle persone, le "persone reali" che si rivolgevano a noi; ci siamo accorti che nella pratica, a volte, centrata esclusivamente sul vissuto, altre volte, esclusiva-mente sui pensieri, altre ancora, sulla cronaca degli eventi, emergeva un'immagine frammentaria dell'altro, e l'altro ricavava di sé un'analoga immagine frammentata.
Abbiamo sentito in contrasto con la nostra natura e il nostro star bene l'immagine dell'analista come "sacerdote" di una conoscenza e il paziente come suo adepto.
Ci è nato il desiderio di "offrire strumenti" di consapevolezza alle persone che chiedevano e chiedono di lavorare con noi. Questo comporta che accompagniamo la persona al riconoscimento e al "disconoscimento" dei propri vissuti e pensieri, che la facciamo confrontare con le proprie descrizioni degli eventi, con la logica delle proprie idee e con le proprie reazioni ad esse fino a ricostruire una "sintassi" della comunicazione verbale e non verbale.
Abbiamo sentito la necessità di "vedere sistemicamente" la persona, inserita nel suo ambiente sociale e culturale reale, e questo ci ha spinto a lavorare, anche per le istituzioni, alla ricerca di quell'altra componente della formazione della persona: il suo rapporto con la conoscenza e con il potere.
Fondamentalmente, è stato il bisogno di garantire più livelli di riflessione che ci ha condotto a concepire e attuare il lavoro "a tre" (come piccolo gruppo) in cui la persona si confronta con un conduttore e un osservatore.
Nella pratica abituale, suddividiamo l'incontro con la persona in due parti (della durata di due terzi e un terzo del tempo disponibile): una prima parte dialogica, dell'espressione libera dei pensieri e dei vissuti, con l'interlocutore, e una seconda parte in cui il "terzo-osservatore" conduce la riflessione sulla comunicazione avvenuta, sul rapporto coi pensieri, sulla "logica del discorso".
I due tempi aiutano a "ricordare" che la comunicazione con se stessi e con l'altro è complessa, si può svolgere su piani e con "interlocutori" diversi, che non si esaurisce in vissuti o pensieri, e che la persona non è, tantomeno staticamente, i suoi pensieri e i suoi vissuti, ma ne è, per quanto possa "subirli", il soggetto. Se, nel loro insieme, le due componenti operative risultano complementari, dal punto di vista del "setting" si esprimono in una significativa continuità.
Il fatto che la persona si trovi di fronte due analisti, inoltre un uomo e una donna, non è indifferente.
Sebbene nel rapporto analitico a due si lavori per lo sviluppo di un "tertium", che si potrebbe identificare nella funzione riflessiva, i due rimangono legati dalla concretezza dell'evidenza fisica. Nel lavoro "a tre" è proprio questa evidenza concreta del "terzo" a produrre imprevedibili effetti emotivi e cognitivi. L'alternanza dei due interlocutori offre la diretta e condivisibile esperienza degli effetti di una variazione di genere nelle relazioni. La persona è condotta alla scoperta delle proprie reazioni di fronte alla caduta di preconcetti sul ruolo maschile e femminile, sui ruoli genitoriali, sulle differenze culturali.
La necessità di lavorare per problemi e obiettivi e non per fini ci ha portato a strutturare "contratti a tempo determinato" con le persone. Periodicamente, la discussione di un "rendiconto" comune contribuisce a mantenere vitale nella persona il proprio senso di responsabilità e di autonomia nella scelta di un percorso di conoscenza.
 
 
 
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Laboratorio di analisi transazionale
 
Daniela Allamandri
Santina Ficara
dado.alla@tiscalinet.it
 
 
PREMESSA
L'Analisi Transazionale è nata negli anni 60 in America ad opera di Erik Berne.
E' un modello terapeutico funzionale da un punto di vista pratico, perché ricco di strumenti di analisi e di intervento efficaci in tempi relativamente brevi.
Allo stesso tempo agisce anche in profondità perché, grazie alla sua teoria di personalità e alla sua metodologia, facilita l'emergere e la rielaborazione di vissuti arcaici.
Uno degli strumenti utilizzati dall'analisi transazionale è l'analisi delle transazioni.
Questo strumento consente all'analista transazionale, attraverso un ascolto attento e un'analisi rigorosa dei messaggi verbali e non verbali, di individuare le problematiche che rendono al paziente difficile la vita relazionale e non fluida la comunicazione.
Il seguente laboratorio ha dato l'opportunità di un assaggio di analisi transazionale, servendosi di esercitazioni pratiche e riflessioni sulle transazioni verbali e non verbali che si instaurano nelle relazioni.
DESTINATARI
Psicologi, pedagogisti, educatori, e tutti coloro che lavorano nell'ambito della formazione, dell'educazione e della clinica
OBIETTIVI
Il laboratorio aveva un obiettivo formativo e non terapeutico.
Nello specifico ci si è proposti di offrire la presentazione di un aspetto della metodologia e teoria analitico transazionale: l'analisi delle transazioni.
La scelta è stata effettuata in base a criteri di semplicità, fattività e significatività esemplificativa.
TEMPI
Il laboratorio si è svolto nel pomeriggio del sabato dalle 15 alle 19 circa.
PROGRAMMA
- Presentazione reciproca e delle proprie aspettative al fine di un'iniziale conoscenza e per la definizione di un contratto di lavoro (il Contratto è un elemento essenziale nella metodologia analitico-transazionale)
- Lavoro personale di riflessione a partire da un problema comunicativo sperimentato in prima persona o visto vivere da altri: ciascuno ne ha individuato uno ed ha cercato di ipotizzare quali fossero i blocchi e le motivazioni sottostanti a queste difficoltà comunicative.
- Messa in comune in piccoli gruppi del lavoro personale e scelta di una situazione, fra quelle emerse, da inscenare e presentare agli altri membri.
- Recita delle situazioni scelte
- Discussione condivisa sulle cause e le motivazioni sottostanti a queste difficoltà comunicative
- Presentazione della teoria analitico transazionale: nello specifico gli stati dell'Io della persona e le tipologie di transazioni che si mettono in atto nella relazione
- Applicazione dei concetti esposti alle situazioni recitate per cogliere come l'analisi transazionale si serva di schemi teorici molto facilmente applicabili alla realtà, utili per una diagnosi efficace delle problematiche soggettive e per direzionare i conseguenti interventi risolutivi.
- Esercitazione applicativa ulteriore a partire dalla simulazione di una scena di vita familiare quotidiana
- Risposta alle domande emergenti per ulteriori chiarificazioni dei contenuti e cenni applicativi riguardo l'utilizzo degli stessi in ambito clinico individuale e di gruppo.
 
 
 
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Spunti di riflessione a partire da un'esperienza di psicodramma analitico
 
Laura Scotti
Massimo Pietrasanta
laura.scotti@libero.it
 
 
La cornice altamente evocativa in cui si è svolto l'incontro, (la Cappella Feriale della parrocchia patrocinio San Giuseppe con panche ordinate in cerchio e luminosità filtrata dalle ridotte vetrate) ed il numero non eccessivo dei partecipanti (6) ha consentito di riproporre abbastanza fedelmente il setting psicodrammatico, così che si è ritenuta utile la scansione dell'incontro in due momenti assimilabili alle sedute.
Il mandato iniziale esplicitato dai conduttori (vale a dire lavorare attraverso contenuti onirici liberamente associati sino a costruire rappresentazioni sceniche compiute) ha trovato generosa disponibilità e collaborazione da parte del gruppo, costituendo un percorso significativo pur nel qui ed ora dell'eccezionalità dell'incontro.
Il gruppo, prevalentemente composto da neofiti rispetto all'esperienza psicodrammatica si è inizialmente identificato nel sogno di una delle partecipanti, che, passeggiando in un bosco in compagnia di alcuni sconosciuti, vede in cima ad una vetta, una casa in cui, a tratti, si affacciano personaggi noti ed ignoti e vi si dirige.
Nel gioco del sogno il gruppo si sente introdotto in un percorso che lo porta ad immergersi nel sottobosco della conoscenza con un pò di ansia e timore (una delle partecipanti associa un sogno ripetuto in cui non riesce mai a prendere un treno lanciato in corsa e così resta ferma sulla banchina della stazione): come è possibile rappresentare (e rappresentarsi) l'inconscio, utilizzando lo sguardo, la parola ed il corpo dell'altro, così come avviene in psicodramma?
Nella seconda parte dell'incontro l'unico partecipante gia esperto in psicodramma, racconta un sogno complesso, fatto in una notte di malattia in cui non riusciva a respirare per una broncopolmonite: egli si trova di notte in una piccola casa di legno e viene svegliato da rumori che lo spaventano (come se un topo rodesse le assi del pavimento). Sollevate le assi, emerge un nastro bianco, una sorta di coda e quello che, a prima vista, gli appare come un fantasma risulta essere un gatto, così che la paura e l'ansia scompaiono.
Nel gioco, il gatto è dapprima scomposto in tre parti (coda, corpo e occhi), un puzzle dice qualcuno, per riunificarsi infine in un'unica funzione.
Spostando il legno e l'armatura delle teorie sei finalmente arrivato all'appuntamento con la relazione rimanda al protagonista una degli Io ausiliari!
 
 
 
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Echi di Attiva Mente
 
Wilma Scategni
wscategn@tin.it
 
 
Quali sono gli echi di Attiva-Mente, a distanza di circa un mese dall'esperienza, in una conduttrice di gruppo che ha scelto di partecipare proponendo un workshop sul sogno? Innanzi tutto mi chiedo con curiosità quali sogni ha evocato in modo più o meno diretto la partecipazione al workshop che ho condotto con Maurizio in chi lo ha vissuto. Ed ancora quali sogni ha costellato ("attivato", per essere in armonia con il titolo) tutta l'esperienza di Attiva-Mente? Mi sembra che abbia coinvolto piacevolmente una valanga di partecipanti e che per alcuni giorni abbia creato nella città una rete di incontri, esperienze, sperimentazioni e ricerche, trasformando il tessuto cittadino in un laboratorio od in un cantiere impegnato, in modo ludico ed allo stesso tempo efficace, a costruire ponti. Credo all'inizio si sia trattato di un ponte tra l'Università, da cui il progetto è partito e le diverse organizzazioni che hanno promosso l'iniziativa, per ampliarsi successivamente con altri ponti tra le strutture che lo hanno ospitato, creando una sorta di "caccia al tesoro"che ha impegnato i partecipanti a ricercare le sedi ove i gruppi si svolgevano. Si sono così scoperti via via nuovi spazi, nuove possibilità di utilizzo di aree già conosciute, angoli remoti del tutto ignoti e quartieri dimenticati. Al termine c'è stata per me la gradita sorpresa della rivelazione di un'oasi di verde all'interno di un chiostro a misura umana di cui ignoravo del tutto l'esistenza, ad un passo dalla confluenza di grandi arterie di traffico cittadino. Qui si è svolto l'incontro conclusivo. Forse un pò tutto l'incontro di Attiva-Mente è stato così: la scoperta di piccole isole di cui si ignorava l'esistenza, perchè nascoste nel frastuono della vita cittadina, in cui la condivisione nelle esperienze dei workshops, di brandelli di emozioni, sentimenti, sensazioni, immagini, ricordi evocati, sogni e pensieri hanno strutturato ponti e reti che hanno reso possibile una significativa seppure parziale condivisione con altri. Così avviene ogni volta che un anonimo insieme di persone si trasforma in un gruppo o in più gruppi aperti a sempre nuove trasformazioni ed interazioni. Certo qualcosa di analogo è accaduto nei giorni di Attiva-Mente tra la teoria e l'esperienza. Le teorie(o meglio le ipotesi teoriche come preferisco chiamarle per eluderne il rischio di dogmaticità), presenti sotto forma di diverse correnti,qui si sono concretizzate nella realtà. Hanno preso la forma di esperienze, per togliersi di dosso la polvere, la muffa e la ruggine che rischiano di accumulare se restano pure forme astratte. Si rivela essenziale che, pur mantenendo la loro formulazione anche complessa per gli "addetti ai lavori" siano in grado di esprimersi all'occorrenza in un linguaggio facilmente accessibile. Un buon antidoto alle conserve culturali, come direbbe Moreno! A me personalmente resta l'esperienza di un certo "profumo di libertà", non così consueto nelle istituzioni, la sensazione di spazi "ariosi", il piacere di reincontrare nella conduzione un buon compagno di"giochi"come Maurizio, con cui mi è sempre riuscito bene esplorare nel lavoro di co-conduzione, aspetti estremamente seri ed impegnativi dell'esistenza umana in modo anche ludico, senza perderne la drammaticità. Ed ancora il piacere di incontrare tra i numerosi partecipanti del workshop, persone sempre nuove, anche se in parte già note, di far vivere nello spazio psicodrammatico del "social dreaming" immagini e personaggi di sogni che si materializzano nella realtà del gruppo.il piacere di coglierne i nessi con l'esperienza vissuta. Ed infine attenderne gli echi ed i riverberi, che nell'inconscio di ognuno si sono smossi, come miriadi di cerchi concentrici di un sasso gettato in uno stagno. Quali messaggi ha portato in sogno il workshop nei suoi partecipanti? E quali l'esperienza più ampia di Attiva-Mente? Quali riaffioreranno a distanza di tempo ed in che forma? E che intrecci avranno con la realtà di ciascuno, con le relazioni che in questa si formano, con altri sogni, immagini e ricordi che da questi si costellano? Potrebbe essere il tema di un futuro workshop di un'altra puntata di Attiva-Mente. E così, in fine, torniamo, completato il cerchio, al punto da cui siamo partiti ma, come sempre, trasformati dall'esperienza. E, infine.last but not least, un messaggio per chi ha ideato, creato ed organizzato questo spazio: Bravi!
 
 
 
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Workshop di psicodramma analitico, alla ricerca delle proprie radici attraverso l'analisi del transgenerazionale.
 
Giulio Gasca
Laura Motrassino
 
 
Nel workshop da noi condotto sullo Psicodramma Analitico Individuativo, nell'ambito del convegno Attiva Mente, abbiamo cercato di dare un'idea ai partecipanti, per quanto possibile nei limiti dello spazio di quattro ore, del modo di funzionare, degli obiettivi e delle tecniche più frequenti nella nostra metodologia.
Abbiamo iniziato con una tecnica di riscaldamento tipica del nostro metodo per i gruppi che si riuniscono la prima volta: quello dalla sedia vuota.
Posta una sedia al centro del gruppo ognuno è invitato ad immaginare una persona seduta su di essa ed a dirlo successivamente al gruppo. In un secondo giro di parola ognuno dei presenti fa ad uno ed uno solo degli altri membri del gruppo una domanda sulla persona da lui vista. Colui o coloro che hanno ricevuto più domande inizieranno poi i giochi drammatici a partire dalle loro relazioni con la persona visualizzata.
Tale riscaldamento iniziale ha infatti lo scopo di favorire un primo intreccio di proiezioni dei temi predominanti nel coinconscio dei membri del gruppo: colui o coloro che ricevono più domande sono per così dire il punto focale delle costellazioni inconscie dei presenti che si attivano ed entrano in risonanza tra loro, costituendo l'essenza della dinamica del gruppo di psicodramma.
Le successive sequenze di giochi (abbiamo avuto complessivamente sette protagonisti nelle quattro ore di lavoro e ciascuno ha giocato da quattro a sette scene) sono mirate in modo da mostrare il collegamento tra dinamica di gruppo, storia personale di ciascuno dei membri e personaggi interni (ruoli interni corrispondenti alla gruppalità interna dei gruppoanalisti, ma anche ai complessi autonomi ed a funzioni psichiche quali Anima o Ombra della Psicologia Analitica Junghiana).
Infatti i ruoli assunti attribuiti agli altri membri del gruppo attuale da ciascun protagonista sono il precipitato dei ruoli assunti da lui stesso o da altri significativi nei gruppi di cui egli ha fatto parte in passato, il primo dei quali è la famiglia di origine. Inoltre i rapporti attuali e passati con gli altri sono resi possibili e mediati da modelli interiorizzati i quali al tempo stesso costituiscono veri nuclei di personalità secondarie (che si manifestano spesso come personaggi dei sogni) che organizzano e strutturano l'inconscio di ciascuno, agendo attivamente in esso.
Le scene giocate hanno l'effetto di mostrare la costante corrispondenza tra dinamica di gruppo, storie personali e personaggi interni attraverso:
le scelte nel gruppo dei personaggi ausiliari destinati ad impersonare personaggi della storia del protagonista, i soliloqui ed i vissuti dopo i cambi di ruolo, con i quali si dà voce e ci si immedesima nei propri personaggi interni, la ricostruzione storica con sequenze di scene che affondano via via in un passato più remoto di come si sono costruiti i modelli interni .
Un particolare significato hanno le scene virtuali che ci è stato possibile far giocare a più di un protagonista. Esse riguardano eventi che il protagonista non ha vissuto nella realtà, ma che sono presenti nella realtà immaginale del suo mondo interiore, in particolare momenti significativi della storia dei genitori ed anche dei nonni , di cui il protagonista ha sentito il racconto, hanno preso forma dentro di lui e riflettono e condensano in sè la percezione inconscia che il protagonista ha delle dinamiche della matrice famigliare, le immagini interiorizzate dei genitori ed il profondo significato dei messaggi, script e miti originati dal sistema famigliare stesso.
Le scene giocate col protagonista nei panni di uno o più familiari (madre, padre, nonno, nonna) ci hanno permesso di evidenziare radici transgenerazionali delle attuali dinamiche conflittuali dei presenti.
La messa a fuoco delle determinanti storiche personali e familiari, e gli sviluppi dialogici del raffronto tra personaggi interni di ciascuno ed infine il confronto dialettico tra i mondi interni, diversi eppure riflesso uno dell'altro, mostrati dai diversi protagonisti, dà ad ognuno di loro possibilità di prendere coscienza dei fattori determinanti di problemi e conflitti ed insieme di non subirli passivamente, ma di vederli per cosi dire dall'esterno e dall'interno, acquisendo la capacità di scegliere nuove soluzioni e di porsi come soggetto o, per usare una metafora teatrale, di porsi come autore e regista della propria esistenza.
Ciascuna fase di elaborazione drammatica (abbiamo lavorato in due sessioni di due ore ciascuna, separate da un breve intervallo) si è conclusa con una breve sintesi verbale ad opera del membro della coppia di conduttori che, a turno, era rimasto ad osservare mentre l'altro conduceva i giochi.
Tale osservazione aveva la funzione di mostrare l'ordine e la connessione presente nelle strutture e negli elementi essenziali delle diverse scene via via giocate, sottolineare per rimandarli all'attenzione del protagonista, nella gran massa di materiale prodotto, gli aspetti più rilevanti e significativi, provocare, con domande, collegamenti, riferimenti, amplificazioni, in ciascun protagonista e negli altri membri del gruppo, interrogativi sugli aspetti ambigui o irrisolti, al fine di stimolarli ad un ulteriore ricerca.
 
 
 
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Come se essere nomadi tra gruppi e gruppalita'
 
Vanda Druetta
Elena Benvenuti
vanda.druetta@erasmo.it
 
 
Attivamente è stato un progetto di incontri dislocati nel tempo e nello spazio. Sono avvenute al suo interno aggregazioni e disaggregazioni per tre giorni e si sono potuti sperimentare vari modi di conoscere se stessi allontanandosi un po' rispetto alle visioni più abituali.
Attraverso molteplici stimoli tecnici, modellistici, epistemologici con cui ci si è fatto carico della complessità dell'esistenza, sono state costruite immagini e configurazioni estremamente significative per coloro che vi hanno partecipato (e forse anche per chi ne ha sentito qualche risonanza).
L'impegno, la fatica, la creatività hanno caratterizzato la proposta del workshop che abbiamo condotto.
L'intenzione era la ricerca della possibilità di sviluppare mobilità intersecando e interagendo tra le immagini interiorizzate che ripetono alcuni o molti tratti della madre e del padre reale e che sono presenti contemporaneamente in ciascun individuo.
Che i valori trasmessi dalla madre e dal padre costituiscano una prima base di identità personale che ne sostiene il completamento è abbastanza chiaro a tutti. Che spesso ciò si trasformi da fattore agevolante a obbligo alla dipendenza e alla identicità è altrettanto una questione riconosciuta.
Ma questo sapere non esclude che quando entra in gioco la spinta ad andare oltre e liberarsi dalle sovrapposizioni ereditate ci si scontra col problema di come sia difficile conciliare ciò che si vuole mantenere dei modelli e dei valori ricevuti e ciò di cui si sente la necessità di allontanarsi.
Vivere nella discontinuità elaborando nuove configurazioni di se stessi e nuovi modi di interagire con gli altri con progetti personali implica potersi spostare, acquisire la forza per zigzagare seguendo un divenire nuovo per niente garantito.
Il girovagare tra incontri con aspetti nuovi e imprevisti di se stessi e degli altri consente inaspettati atti creativi che si trasformano in esperienze e in nuove conoscenze.
Ovviamente questa prospettiva implica dei rischi che possono anche apparire insostenibili.
Nel gruppo di psicodramma analitico individuativo la pratica del gioco centrato sul "come se" appare essere una valida opportunità di dislocare la percezione delle fragilità.
Ripetendo nella ritualizzazione del gioco gli aspetti di sé e della propria storia percepiti come ingombranti, da tenere segreti o da negare, essi perdono la loro forza minacciosa e si lasciano riguardare con un nuovo sguardo che consente di salvare le componenti che possono essere utili per i mutamenti che si ritengono necessari per il progetto personale.
Il gruppo del workshop
Abbiamo iniziato con un sogno: quale migliore opportunità per uscire dalle ripetizione dei propri atteggiamenti e ricercare nuovi spazi in cui sviluppare delle alternative del sentire e dell'agire!
Il sogno narrava di cadaveri e di anellini trovati in un cassonetto della spazzatura di cui sembrava si dovesse scoprire dell'uno l'identità degli altri il proprietario.
La messa in scena del sogno stimola nel gruppo associazioni che presentificano situazioni dell'infanzia in cui si veniva impediti nel fare giochi da altri ritenuti pericolosi o si veniva sottoposti a rigidi controlli perché non ci si allontanasse troppo, oppure si era costretti a tingere i capelli rossi per essere meno visibili e non interrompere una continuità familiare.
Con grande stupore , e lo vediamo attraverso una messa in scena di un racconto che la madre faceva alla figlia, con la svalutazione del colore dei capelli si ripeteva ciò che la madre aveva subito dalla propria madre, avvenimento di cui aveva smarrito la sofferenza e la rabbia.
Si sviluppano e si giocano molte immagini che riportano il dolore della crescita non riconosciuta dai genitori e il paradosso in cui conduce il bisogno di affetto e protezione e il bisogno di autonomia.
Accanto a madri e padri normativi che con i divieti richiedono omologazioni, vengono presentificate anche madri iperprotettive che prevedono il meglio per i figli di fronte alle quali appare ingrata la ricerca di trasformazioni e mutamenti.
L'immedesimazione nei ruoli evocati con la ripetizione di attitudini dominanti, il cambio di ruolo con l'opportunità di assumere una parte più o meno confusa con l'Ombra , il dialogo fra aspetti personali e sociali meno accettati perché troppo caotici, e ancora il confronto con la storicità di alcuni contenuti, nel gruppo ha rafforzato la capacità di aprire degli spazi in cui esplorare anche immagini nuove in cui sono confluiti aspetti personali meno originali e al contempo potenzialità che per il loro caratterizzarsi come discontinuità erano state disconosciute.
L'immagine finale del gruppo sottolinea l'essere in grado, individualmente e collettivamente, di sganciarsi da configurazioni dogmatiche e ridare slancio a rappresentazioni di sè alternative.
Si è dapprima di fronte ad un ponte sospeso che congiunge due versanti di una montagna.
La protagonista ha paura ad attraversarlo, è titubante , vorrebbe essere aiutata dal padre. Ma lui non riesce a comprendere nè le incertezze nè le richieste della figlia.
Attraversare il ponte, passare da una situazione ad un'altra significa esporsi al vuoto con la consapevolezza di essere sola e col timore di non farcela.
Il bisogno di mobilità e di cambiamento a cui rimanere attaccati si concretizza infine nella messa in scena di una cucina gialla.
E' la cucina che la protagonista del "ponte" distinguendosi dalla famiglia e lasciando da parte attitudini richiestive e lamentose, si è costruita scegliendo di colorarla di giallo perché in quel colore si riconosce .
Dentro alla cucina il gruppo ha vissuto la sensazione del disincanto rispetto alla ricerca della beatitudine della fusionalità e ha sentito di poter scoprire lo scopo del personale andare per gruppi ad attuare disconnessioni e ad intrecciare connessioni per disidentificarsi dai miti che hanno la caratteristica di normatività impenetrabile.
Anche per le conduttrici essere spostate dai propri studi professionali e incontrare i partecipanti al gruppo con i loro modelli teorici e pratici ha significato una opportunità ulteriore di sperimentare il valore della fluidità dei confini e il senso di poterli un poi spostare.
 
 
 
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Il conflitto come risorsa
 
Paola de Leonardis
pcpde@tin.it
 
 
Il conflitto come risorsa era il titolo del workshop da me presentato ad AttivaMente. Seguendo le finalità generali di AttivaMente, la mia proposta intendeva far sperimentare ai partecipanti l'approccio psicodrammatico in ambito formativo in relazione ad una specifica tematica.
Ho scelto il tema del conflitto, dell'aggressività e dell'assertività perché, nella mia esperienza di lavoro in diversi servizi e ambiti psicosociali e psicoeducativi, esso costituisce un nodo centrale delle relazioni interpersonali con gli utenti/clienti/pazienti, così come delle dinamiche di équipe e, naturalmente, del confronto gerarchico.
Inoltre ho potuto constatare che - nella vita di un gruppo sia terapeutico che formativo - il lavoro sull'aggressività, espressa o repressa, arricchisce in modo significativo il tessuto sia emozionale sia cognitivo del gruppo, che ne compone la matrice dinamica, e segna spesso una svolta positiva, orientata ad una maggiore individuazione interpersonale e ad una più coraggiosa comunicazione intragruppale.
Nell'ambito dell'approccio psicodrammatico, conflitto, aggressività, assertività possono essere elaborati secondo diverse prospettive e con una varietà di metodiche. Si può privilegiare, all'interno del gruppo, il riconoscimento e l'espressione delle emozioni e dei sentimenti che spesso sono fonte di conflitto, e procedere con la loro elaborazione psicodrammatica, cioè in azione.
Si possono approfondire, all'interno del gruppo, i significati affettivi di determinate situazioni conflittuali, ricercarne, sempre attraverso l'azione, le possibili radici psicologiche nelle variazioni delle storie individuali, in modo da riconoscere e recuperare parti di sè rimaste in ombra e inascoltate.
Se il gruppo lo richiede, o il conduttore lo considera importante, si può orientare la dinamica gruppale alla percezione attiva della differenza fra conflittualità (che spesso vuol dire dipendenza sociale e affettiva) e conflitto (che spesso vuol dire autoaffermazione più o meno riuscita). Così come si può mettere a fuoco, nelle scene giocate, la differenza fra conflitto creativo, o aperto (cioé orientato all'espressione soddisfacente dei propri bisogni e sentimenti ma nella salvaguardia della relazione), e conflitto distruttivo, o chiuso (orientato cioé all'espressione dell'ostilità e alla distruzione della relazione).
Si può infine (ma non è certo l'ultima possibilità) affrontare il tema privilegiando le modalità di confronto interpersonale in caso di conflitto, chiamare il gruppo a formulare e giocare, in determinate situazioni conflittuali, diverse alternative comunicative, nuove modalità di relazione, in grado di rispettare i bisogni e gli obiettivi relazionali sia propri che dell'altro.
Per il mio Laboratorio di AttivaMente sentivo di voler scegliere un approccio generale al tema del conflitto e dell'aggressività per due motivi.
Innanzitutto per rispettare il contratto (implicito nella situazione, e poi esplicitato al gruppo prima dell'incontro) di un'esperienza formativa, con valenze non solo affettive ma anche cognitive. Inoltre per evitare, come spesso succede in incontri occasionali di psicodramma, di intrappolare (il termine non è bello ma purtroppo spesso pertinente) uno, due o tre protagonisti in rappresentazioni emotivamente molto forti, in grado di provocare una notevole esposizione personale in un gruppo che non ha storia e in cui le persone non si conoscono, e quindi con troppo labili possibilità di un'integrazione significativa sia per il singolo che per il gruppo (spesso in tali esperienze alcuni partecipanti vengono conquistati dalla catarsi espressiva, ma altri si arrabbiano e ad altri esse lasciano l'amaro in bocca di un gioco uscito dagli schemi).
Ritengo centrale, nell'approccio psicodrammatico, non ridurre il gruppo al ruolo di osservatore partecipante come, ripeto, spesso succede negli incontri occasionali o dimostrativi di psicodramma. Così, nelle situazioni in cui il gruppo è novello, non ha ancora storia e sviluppo nel tempo, dedico tempo e sforzo al confronto e all'espressione interpersonale, in modo da far emergere almeno le caratteristiche specifiche del gruppo nel qui ed ora, costituite dai bisogni dei partecipanti, le loro aspettative, la loro disposizione emotiva, e per delineare un confine condiviso del gruppo all'interno del quale le persone possano sentirsi sicure.
Al Laboratorio di AttivaMente sapevo, orientativamente, che avrebbero partecipato sia studenti della Facoltà di Psicologia sia operatori in ambito psicologico, terapeutico e formativo, con l'obiettivo centrale di sperimentare e capire come funziona lo psicodramma. I presenti sono stati circa una trentina.
Secondo le linee sopra indicate, dopo essermi presentata e avere circoscritto il tema dell'incontro, ho quindi attivato un processo interattivo di espressione di sè che dal generale si inoltrava progressivamente verso il personale: il personale psicosociale, cioé contestualizzato al proprio mondo esterno, e il personale intrapsichico, più specificamente riferito al proprio mondo interno.
Poiché il tema del Laboratorio era il conflitto e l'aggressività tema delicato e in grado di toccare significativamente le difese delle persone ho dato a tale processo autoespressivo un contenitore cognitivo, che nella mia esperienza ha una funzione rassicurante nei contesti formativi e rafforza il senso della molteplicità e complessità gruppale.
Il contenitore cognitivo è consistito nella concretizzazione simbolica dei diversi tipi di aggressività ad opera di vari partecipanti volontari attraverso posture e verbalizzazioni.
Da un lato si è proceduto alla rappresentazione psicodrammatica dell'aggressività reattiva, come difesa da un pericolo o come risposta a un'offesa, una frustrazione, una ferita; dall'altro lato la si è rappresentata come modalità attiva, autocentrata, di relazionarsi. Quest'ultima concretizzazione ha portato a scoprire due linee di possibile espressione dell'aggressività attiva: come imposizione dell'Io, in cui rivalità, competizione, ricerca del potere sono marcatamente distruttive; e come affermazione dell'Io, come modalità di combattere per la sua libertà di essere nel mondo, di esplorare, di conoscere e di cambiare il mondo.
Le persone coinvolte in tali rappresentazioni simboliche sono state espressive e creative: lo stimolo era quello di riconoscersi, attraverso i propri vissuti personali, in diversi tipi di tensione ed espressione aggressiva e di verbalizzarli secondo personali sfaccettature.
Ho ritenuto, quindi , che il gruppo fosse pronto a calarsi in una situazione significativa, portata con particolare vividezza da uno dei partecipanti. E si è così proceduto al lavoro con un protagonista, con il quale si è cercato di illuminare i principali aspetti emotivi, diretti e indiretti, di una situazione di conflittualità all'interno di un'équipe di lavoro di un servizio pubblico. Nella rappresentazione del momento del confronto e del conflitto, ho cercato di allargarne l'elaborazione emotiva chiamando molti doppi a fianco del protagonista, che non soltanto verbalizzassero emozioni diverse ma esprimessero una gamma significativa di bisogni personali all'interno della situazione data.
L'amplificazione da parte del gruppo del tema proposto dal protagonista, e la partecipazione emotiva di molte persone nei diversi momenti della scena, intendevano promuovere, e mi sembra che ciò sia successo, quella che in psicodramma viene chiamata catarsi integrativa, cioé la condivisione allargata degli aspetti emotivi emersi senza perdita del senso di individualità e specificità personale: due finalità importanti nell'intervento psicodrammatico, soprattutto in un contesto formativo che si apre e che si chiude nell'arco di un unico incontro.
Mi sia consentita un'ultima annotazione personale: ho sentito molto il nostro gruppo di lavoro, al quale mi sono accostata con rispetto e desiderio di conoscerlo; ho trovato persone calde, autenticamente disponibili a giocarsi, e mi ha fatto piacere che siamo arrivati insieme all'emozione condivisa.
 
 
 
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Laboratorio di playback theatre "nel cuore delle storie" .
 
Anna Ruschena

oldcamera@micronet.it
 
 
Ho condotto il laboratorio di playback theatre il sabato pomeriggio in un clima caldo, accogliente e carico di entusiasmo.
Su 20 partecipanti, in maggioranza giovani e studenti, 4 avevano già seguito un laboratorio di playback theatre il giorno precedente, un paio avevano una vaga idea di ciò che li aspettava, mentre tutti gli altri ne sapevano poco o nulla.
I timori, le esitazioni e gli imbarazzi che spesso accompagnano l'inizio di un gruppo in cui le persone non si conoscono e ignoti sono anche i contenuti e le modalità di lavoro, sono stati davvero minimi: legati dal filo di Attivamente, invisibile ma concretamente percepibile, tutti si sono dimostrati disponibili a giocare, conoscersi e riconoscersi. Senza bisogno di tante parole o spiegazioni, senza musica, oggetti o materiali vari, subito sono entrati nel gioco con le loro emozioni e con il corpo, unico strumento per esprimerle.
La prima parte è stata dedicata alla conoscenza reciproca, ma la presentazione di sé, inizialmente verbale, si è subito trasformata in interazione: muovendosi nello spazio i partecipanti si sono incontrati,
hanno giocato col proprio nome e le proprie qualità esprimendosi con la voce, i suoni, i gesti ed il movimento. Ognuno ha poi presentato agli altri attraverso una camminata la propria emozione del momento, sperimentando in tal modo per la prima volta il ruolo di attore al centro dell'attenzione: tutti gli altri, come pubblico, hanno dato voce all'emozione che il singolo intendeva esprimere.
Dopo questo primo momento di riconoscimento di sé da parte degli altri, siamo entrati nel vivo delle storie.
Ogni narratore, dopo aver raccontato una storia, ne ha individuato l'emozione centrale, il cuore, al quale ha dato forma concreta attraverso la costruzione di una scultura fatta utilizzando il corpo dei compagni. Ogni attore quindi, partendo dalla battuta assegnata dal narratore, si è calato nella propria parte e l'ha sviluppata utilizzando la voce con le sue modulazioni, il movimento nello spazio e aggiungendo anche nuove battute.
La forza e la magia del playback theatre stanno proprio in questo: essere sé stessi ed essere contemporaneamente altro da sé, risvegliare quote di spontaneità che permettono di ritrovare dentro di sé emozioni e sentimenti, e quote di creatività che consentono di restituirli all'altro arricchiti ma non distorti.
Per far circolare tante emozioni bisogna far circolare tante storie: ho formato quindi delle coppie, con la consegna di raccontarsi reciprocamente una o più storie. Chi ascoltava la storia doveva poi individuarne il cuore e rimandarlo al narratore attraverso una postura che esprimesse il proprio sentire. Si è riformato quindi il grande gruppo che ha sviluppato ulteriormente il lavoro: il cuore di ogni storia raccontata è stato rappresentato da tre persone contemporaneamente, mentre gli altri, fungendo da doppi, hanno verbalizzato le emozioni espresse dalle posture stesse.
Ciò ha permesso di far emergere e restituire ai narratori ricchezza di significati e nuove possibilità in cui riconoscersi, ma soprattutto ha abituato gli attori a sviluppare una particolare attenzione a quanto espresso dal narratore, e ciò si è rivelato molto utile nel momento in cui si è passati alla rappresentazione delle storie.
Alcune di queste sono state rappresentate bene, con una buona interazione fra gli attori, ed hanno assunto una buona forma, mentre altre, come ovviamente ci si poteva aspettare lavorando con delle persone non addestrate, meno (da sottolineare però alcune interpretazioni di oggetti davvero eccellenti).
Comunque le emozioni sono sempre state colte ed i significati rispettati.
A questo punto vorrei spendere qualche parola di riflessione
sull'addestramento attoriale al playback theatre e sulla buona forma da dare alle storie.
Il playback theatre, pur con tutte le sue peculiarità, è teatro, ed il teatro è arte e in quanto tale deve rimandare non solo significati ma anche armonia, bellezza, e suscitare in chi osserva emozioni ma anche piacere visuale.
Per riuscire a dare buona forma alle storie è necessario un addestramento degli attori che richiede pazienza, precisione ed attenzione nell'interpretare i vari ruoli, ma anche piacere. Parlo di quel tipo di piacere che spinge a ritrovrsi con continuità per sperimentare assieme, fare ricerca, esprimere parti di sé e scoprirne anche delle nuove in un armonico percorso di crescita individuale e di gruppo basato sul riconoscimento reciproco di uguaglianze e differenze.
Il playback theatre. è creatore di legami e portatore di verità attraverso un'oscillare continuo fra momenti di intensità emozionale e momenti di comicità liberatoria; è ludico ma nello stesso tempo profondo, rimescola le carte e consente l'espressione del simbolico che ognuno porta dentro di sé. Infine fare playback theatre dà carica, energia, e sviluppa il piacere di partecipare ad un progetto comune.
Alla fine del laboratorio che ho condotto l'energia si è tutta concentrata nella costruzione di una grande macchina ritmica del saluto.
Due parole ancora a proposito di Attivamente: ben pensata, ben organizzata, ha permesso di conoscersi, di incontrarsi, di rincontrarsi magari dopo tanto tempo. Per le strade si respirava aria di festa, di novità e di complicità
Mi auguro presto una nuova puntata.
 
 
 
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La nostra partecipazione ad Attiva Mente
 
Barbara Fiore
Donatella Mondino

alaya@libero.it
 
 
La nostra partecipazione ad Attiva Mente è stata una fatica, poichè la nostra forma di intervento concreto di arteterapia prevede il trasporto di materiali artistici, cosicché eccoci la mattina dell'intervento, di buon'ora, con le nostre cassette degli attrezzi pronte: scatole di pennarelli, bottiglie di colore e stravaganti pezzi di carta recuperati .
Ci muoviamo in un ambiente da costruire e trasformare, incontriamo partecipanti disponibili a giocare, il tempo si dilata e il luogo che l'organizzazione ci ha fornito comincia ad essere un laboratorio di Attiva Mente.
Da un gruppo di arteterapia nascono incontri che attraverso l'espressione artistica, morbida e fluida, trasformano i segni in immagini costruite, definite : storie .L'attenzione all'immagine prevede l'imprevisto, e la capacità di accoglierlo come elemento trasportatore di emozioni. Su ciò che conosco l'attenzione si ferma, e ho il desiderio di esternarlo. Ma il colore si mescola sulla carta e assume sembianze originali, la storia che sapevo ha una sfumatura irrisolta, l'immagine che l'accompagna si toglie da me e diventa una forma concreta. Mi fa paura l'imprevisto? O so, e se mi fido, ritrovo nell'emozione del ricordo Il segno oscuro, il punto di incontro che mi permette di trasformare in un'altra storia quello che vivevo come un errore.
Il gruppo di Attiva Mente ha raccolto il messaggio, e da poche lievi consegne si è coagulato intorno al tavolo dei materiali per cominciare a scoprire ciò che di familiare attraversava i colori. Da una grande opera collettiva, i partecipanti si sono stati invitati a lavorare su uno spazio intimo, personale. Sino ad arrivare, nella consegna successiva, a sondare da questa posizione la possibilità di incontrarsi per affinità di segni ,e poi di nuovo al gruppo intero il gioco finale : costruire i collegamenti tra le immagini.
Ne è nato un villaggio di immagini abitate, con strade che le collegavano semplici e lineari oppure ingarbugliate, talvolta interrotte : lì non ci vado, perché non mi piace stare vicino alla tua immagine, che mi fa paura. Oppure, questo disegno mi accoglie con la sua tenerezza e mi sta bene andargli incontro. Abbiamo visto disegni in cui era entrata l'esperienza della guerra e ne abbiamo avuto un senso di vertigine. Siamo state contente che nello spazio di Attivamente ci fosse il posto anche per questo .
Siamo rimaste piacevolmente colpite dall'atmosfera di partecipazione intensa che ha contraddistinto questa esperienza, e non ci riferiamo solo al laboratorio che abbiamo condotto. Ci è sembrato che le forme concrete dell'intervento psicologico siano state in generale contraddistinte da una grande capacità di adattamento e trasformazione creativa di situazioni poco definite, e che tale fluidità abbia permesso a tutti noi di passare dei momenti piacevoli di scambio intenso e proficuo.
E poi, le nostre cassette degli attrezzi del mestiere al ritorno erano molto alleggerite e per noi arteterapeuti questo è sempre un buon segno.
 
 
 
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Psicomotricita'
 
Rita Negro
 
cane90@libero.it
 
 
La proposta di un laboratorio di psicomotricità è stata un,occasione per portare il mondo dei bambini nella vetrina delle forme attive della psicologia.
Il laboratorio si presentava come:
- uno spazio ed un tempo in cui provare a ritrovare il piacere del gioco libero e spontaneo, in un gruppo, luogo in cui fosse possibile riscoprire la propria corporeità, il piacere del movimento, il piacere dell'agire e del sentire;
- un'esperienza in cui sperimentare la relazione con gli altri mediante gli oggetti propri della psicomotricità, in uno spazio reale ma anche simbolico; un'esperienza in cui sperimentare la comunicazione non verbale nella ricerca dei linguaggi del corpo e delle emozioni nascoste, a volte dimenticate.
- un occasione per "assaggiare" una metodologia dedicata prevalentemente ai bambini che richiede all'adulto di permettersi la creatività, la capacità di mettersi in gioco in modo autentico, la capacità di ascoltare e di attendere, per aiutare il bambino, la bambina a crescere in modo armonico e per aiutarlo a superare le sue eventuali difficoltà.
Tutto qui? Sembra così facile!
Per partecipare era richiesta la disponibilità al gioco, ad un lavoro pratico in gruppo, in uno spazio, idoneo al movimento libero e un abbigliamento comodo.
All'interno della presentazione del laboratorio e comunque con i partecipanti, si è dato un spazio alla descrizione dei contesti in cui opera la psicomotricità, in modo sintetico come era richiesto dal patto di Attiva Mente ma con l'attenzione a dare una definizione il più possibile condivisa dalla maggior parte dei professionisti della psicomotricità, senza la pretesa di dare definizioni ufficiali, di raccontare tutto, di essere esaustivi, lasciando aperta la porta alla curiosità.
Compito delicato questo, perché la storia della psicomotricità in Italia è ormai lunga, a volte nodosa, ma sicuramente matura e con un'identità sempre più precisa.
La psicomotricità veniva definita nella presentazione come un insieme di tecniche e di prassi dedicate prevalentemente a soggetti in età evolutiva, attuata sia in ambito terapeutico e riabilitativo sia in ambito educativo dallo spazio del nido, alla scuola dell,infanzia e alla scuola di base: materne, elementare, media inferiore, anche come strumento e metodologia a sostegno dell'integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap. In questo ambito non si tratta di una ginnastica speciale o di una terapia funzionale ma si tratta di consentire la migliore integrazione possibile ai bambini, in un gruppo di pari e di fornire un aiuto alla armonizzazione della sfera motoria, cognitiva, affettiva e relazionale.
In contesti riabilitativi e in contesti terapeutici, la psicomotricità è utilizzata, dopo un accurato esame/bilancio psicomotorio come progetto di aiuto al bambino dai primi mesi di vita all'adolescenza, mediante interventi individuali o in piccolo gruppo. Oltre a soggetti in età evolutiva non sono escluse esperienze con persone anziane, ambito questo ancora poco descritto dalla letteratura specializzata, oppure esperienze con adulti sia come proposta educativa che come formazione professionale.
L'operatore della psicomotricità è lo/la psicomotricista, operatore socio-sanitario che ha seguito una formazione teorico-pratica triennale; ha il compito principale di favorire e sostenere l'espressività globale della persona, del bambino, mediante il gioco, l'azione, gli oggetti , la relazione con l,altro adulto o bambino, in una relazione di ascolto, in uno spazio protetto e adeguatamente predisposto e in un tempo definito.
Non è stato facile portare tutto l'ambaradan dello psicomotricista in un contesto di workshop e concentrare gli stimoli che la psicomotricità può offrire.
E' stata come una piccola sfida alle regole del setting psicomotorio e ai suoi tempi che sono solitamente abbastanza lunghi soprattutto quando il lavoro è rivolto agli adulti, poco pronti al gioco e alle regole del mettersi in gioco con il corpo.
Ci è voluto un po' di coraggio da parte della conduttrice e da parte dei partecipanti a fidarsi e a decidere che valeva la pena incontrarsi, gli iscritti erano abbastanza vicini al numero richiesto poi chissà come, all'appuntamento qualcuno si è perso e lo stiamo ancora cercando.
E' stata un'esperienza di conduzione molto particolare, densa di emozione ma, come ho detto in omaggio agli Amici siciliani presenti al divertente finale di Attiva Mente , è stato come condurre "una lapa" come si dice in quella terra per chiamare il motocarro, ho caricato tutti là sopra e via!
Al pullman di turisti, ai tanti iscritti, ai tanti ci penseremo un'altra volta.
Per me, per noi è stato interessante e divertente, eravamo consapevoli di poter aprire i tendoni su di uno scenario, aprire una porta, sentire cosa combinano i bambini, provare a chiederci : cosa sta succedendo? E poterci dare altri appuntamenti.
Questo è stato Attiva Mente per noi.
Un'ultima nota curiosa: ci era stato ripetutamente chiesto di non utilizzare il termine terapia nella presentazione delle nostre proposte di conduzione del gruppo.
Giustamente, attenersi al compito dato dall'organizzazione significava presentare forme attive della psicologia, difficile eliminare la parola e tutto ciò che sottende anche in un profilo professionale definito ufficialmente presso i Competenti Ministeri e non solo.
Ebbene: la storia del nostro workshop ci ha portati a tornare là dove non dovevamo essere, a lavorare nella stanza della terapia psicomotoria della struttura che ci ospitava, là
dove non dovevamo andare abbiamo trovato oggetti d.o.c. della psicomotricità e pezzi di altre storie forse di bambini e di psicomotricisti.
Chissà.
 
 
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Il viaggio, metamorfosi e crescita
 
Carola Palazzi Trivelli
Luca Pinciaroli
Alberto Taverna
lpincia@tiscalinet.it
 
 
Tommaso nacque nell'acqua della laguna veneta, là dove ci sono tanti giocattoli adatti a lui, soprattutto il pesce verde-rosso, proprio lui che un giorno lo accompagnò nel mare. Dopo aver giocato in mare Tommaso ne uscì trovandosi improvvisamente sulla riva di un lago circondato dai colori dell'autunno. "Quanto sono più belli i colori del mare" pensò Tommaso. Tuttavia, alcuni elementi della natura messi in risalto dalla luce del sole e dal turbinio del vento ora gli sembravano molto più belli. "Ma chi è Tommaso?", si domandava il direttore d'orchestra mentre si accingeva a dare il via all'esecuzione. Una donna raccolse Tommaso e lo portò in una casa piena di musica. Era quella del direttore d'orchestra. In questa casa Tommaso scoprì la vita come un insieme di colori ed emozioni, danzando li conobbe, vi entrò ed imparò ad esserne parte e crebbe superando molti ostacoli. Quello che abbiamo proposto è un percorso di integrazione tra le varie forme di artiterapie in cui queste si fondono insieme, si alternano, si sommano tra loro per soddisfare i bisogni espressivi dei partecipanti al gruppo. Così la musica è stata insieme introduzione, conclusione, stimolo nella parte pittorica e filo conduttore in quella drammatica. La pittura è stata alla base della costruzione della storia ed insieme centrale nella fase di elaborazione dei propri vissuti. La drammatizzazione presa di coscienza delle propri emozioni, movimento del corpo e messa in scena dei propri ruoli interni. La danza coordinamento dei movimenti all'interno della scena e rielaborazione/rievocazione degli stimoli iniziali nel tentativo di "dare un senso" ai propri vissuti. La nostra intenzione era dunque quella di fondere insieme i vari medium espressivi (musica, pittura, teatro, danza) che caratterizzano le diverse forme di terapie espressive (musicoterapia, arteterapia, drammaterapia, danzaterapia) e, pur mantenendo la specificità di ogni strumento espressivo sottolineare la necessità di creare setting meno rigidi, più flessibili, sempre più attenti ai bisogni dei pazienti . A questo incontro ha fatto seguito una richiesta da parte dell'associazione studentesca "Il Faro" di approfondimenti teorici e pratici sulle varie forme di terapie espressive e sulle possibilità di integrazione di queste. Un incontro si è già svolto ed un altro si terrà invece a gennaio.
 
 
 
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Forme espressive nel playback theatre
 
Sabine Wendt
gm.spada@libero.it
 
 
Entriamo in contatto con noi stessi e con gli altri (utilizzando modalità psicodrammatiche).
Esploriamo le emozioni attraverso il suono ed il movimento (con particolare attenzione all'uso del suono e della voce).
Diamo una forma alle emozioni attraverso la scultura fluida, le coppie, i tableaux.
Al mio workshop hanno partecipato sei persone, quattro ragazzi di circa 20 anni che si conoscevano e due donne di circa 30 anni, tutte due laureate in psicologia che non si conoscevano.
Il fatto che il numero dei partecipanti era minore alle mie aspettative mi ha costretta a cambiare leggermente il programma del work shop.
Nella prima fase di riscaldamento i partecipanti si sono presentati uno alla volta dicendo il proprio nome e parlando delle aspettative rispetto al laboratorio. Eravamo seduti in cerchio su delle sedie. Dopo si sono scelti un partner con il criterio meno lo conosco meglio è. La coppia aveva 10 minuti per presentarsi l'uno all'altro in modo più approfondito. Quando questo scambio era concluso ogni partecipante si presentava agli altri in inversione di ruolo col proprio partner.
La prima fase di riscaldamento si conclude con la condivisione del vissuto.
A questo punto il clima cordiale e l'interesse reciproco sono stati creati e ha avuto inizio la seconda fase di riscaldamento che riguardava l'addestramento dell'attore di playback theatre.
La prima fase di addestramento si è basata su alcuni esercizi fondamentali in cui abbiamo esplorato il suono e il movimento sia singolarmente che unendo il suono al movimento rispetto ad un'emozione espressa; i partecipanti hanno lavorato in coppia, singolarmente o in gruppo secondo l'esercizio. Mi sono soffermata sul lavoro con il suono perché è un argomento che mi interessa particolarmente. Uno degli esercizi specifici era questo: lavorando in coppia i partecipanti mettevano le proprie mani sulle spalle del partner, chiedevano gli occhi, si concentravano completamente sul partner, cercando di sintonizzarsi anche sul suo respiro e quando se lo sentivano dovevano esprimere una serie di suoni o un suono unico che ritenevano che era quello che svelava lo stato d'animo di questo momento del partner. È un esercizio che sensibilizza le persone rispetto alle proprie percezioni e alla percezione dell'altro, una qualità che è molto importante per un attore di una compagnia di playback theatre
Dopo la condivisione del vissuto era evidente che le persone sono rimaste molto colpite dall'esito di questo esercizio.
A questo punto abbiamo fatto una pausa di 30 minuti.
La seconda parte del work shop si è basata soprattutto sull'introduzione della scultura fluida. Attraverso alcuni esercizi siamo arrivati per grado alla rappresentazione della scultura fluida sempre esprimendo in essa una particolare emozione o uno stato d'animo fino a rappresentare un piccolo episodio raccontato da uno dei partecipanti.
Dopo questi esercizi non era difficile portare le persone alla rappresentazione di una coppia di emozioni contrastanti ed infine alla rappresentazione dei tableaux.
Alla fine del laboratorio ci siamo seduti tutti in cerchio e abbiamo condiviso verbalmente il nostro vissuto. Mi è sembrato che tutti i partecipanti erano entusiasti delle possibilità che ha l'attore nel playback theatre. Erano soddisfatti dell'esperienza del pomeriggio ed invogliati a saperne di più.
Il work shop si è concluso con un canto della sottoscritta: i partecipanti erano seduti in cerchio, vicini gli uni agli altri tenendosi per mano, hanno chiuso gli occhi, si sono concentrati su se stessi e nello stesso tempo sugli altri e così hanno ascoltato il canto. Per salutarci ci siamo tutti abbracciati e credo che abbiamo portato a casa la sensazione di aver veramente condiviso noi stessi con gli altri.
Anche se i partecipanti del mio gruppo erano in pochi sono soddisfatta del lavoro che abbiamo fatto. Ancora una volta ho constatato che ciò che conta non è la quantità ma la qualità. Ho visto come in poche ore anche un piccolo gruppo può sentirsi gruppo e come l'intensità del lavoro può entusiasmare e veramente avvicinare gli altri al playback theatre
Spero che l'esperienza di AttivaMente si ripeta! Sono orgogliosa di aver potuto partecipare a questa iniziativa e ringrazio di nuovo tutti gli organizzatori.
 
 
 
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Tutto su vostra madre e vostro padre. La co-conduzione nello psicodramma moreniano (1).
 
Anna Esposito

pcarriro@tin.it
 
 
Nello psicodramma classico il conduttore terapeuta viene definito direttore sottolineando in questo modo una funzione direttiva che altrove, vale a dire in altri contesti terapeutici, generalmente si cerca invece di evitare.
In realtà tale funzione si avvicina a quello che potremmo definire ruolo di regia. Il direttore psicodrammatista è colui che consente il verificarsi di accadimenti, crea cioè le condizioni, il contesto all'interno del quale l'azione espressiva di ciascuno possa dispiegarsi. L'espressione di sè infatti non avviene mai nel vuoto ma sempre all'interno di un contesto. La funzione specifica del direttore è quella di costruire tale contesto, sia che il gruppo interagisca in situazione di realtà, sia che interagisca in situazione di semirealtà.
Le consegne del direttore scandiscono il tempo e lo spazio, creano la realtà, o più precisamente la semirealtà psicodrammatica, all'interno della quale il gioco delle parti (gioco che ciascuno di noi, nella molteplicità dei propri ruoli, porta scritto nel DNA) può consumarsi e forse dare vita a configurazioni nuove di modi di essere.
Infine una funzione psicologica importante non va trascurata nel discorso sulla direttività, ed è quella del contenimento inteso come holding di winnicottiana memoria.
E tuttavia tale funzione direttiva del direttore (mi si consenta il bisticcio di parole) è meno direttiva di quanto potrebbe sembrare.
I vincoli sono posti prima di tutto dal gruppo stesso, dai suoi bisogni, dal grado di spontaneità possibile in ogni momento per ciascun membro: è così che le consegne del direttore devono necessariamente tener conto di quello che in ogni momento i singoli membri possono concedere all'azione continuando a sentirsi adeguati.
La risposta del singolo e/o del gruppo anima il contesto suggerito dal direttore; ed è questo il secondo modo in cui il gruppo vincola il direttore, nel senso che la risposta del singolo e/o del gruppo determina la consegna successiva e così via.
Da questo punto di vista la conduzione di un gruppo di psicodramma può essere vista come un dialogo tra il direttore e il gruppo o forse meglio come una partitura musicale in cui il direttore scandisce il ritmo ma il gruppo suona la melodia. Il risultato finale scaturisce dalla creatività del gruppo e del singolo, dall'anima che ciascuno ha messo in scena.
A questo punto forse la direttività se non proprio illusoria può essere considerata una regola del gioco che permette di giocare.
Lo psicodramma infatti è un gioco attraverso il quale è possibile rivisitare la propria storia e provare a riscriverla.
 
 
 
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Tutto su vostra madre e vostro padre. La co-conduzione nello psicodramma moreniano (2)
 
Paolo Carrirolo

pcarriro@tin.it
 
 
Una caratteristica dello Psicodramma moreniano, a mio parere significativa è che ognuno, all'interno della sessione di psicodramma ha un ruolo ben preciso, con funzioni specifiche e con un nome definito. Così il ruolo di membro del gruppo ha caratteristiche e funzioni diverse da quello di io ausiliario o di protagonista, pur potendo rivestire la stessa persona, in momenti diversi, tutti e tre questi ruoli. Così anche il direttore di psicodramma non ha eguali, rischiando di apparire contraddittorio ed eccessivamente perentorio, rispetto al seminario che Anna Esposito ed io abbiamo proposto, vorrei affermare che in psicodramma classico non esiste la co-direzione.
Il direttore, così si chiama in psicodramma moreniano il ruolo di colui che ha funzioni di conduzione del gruppo, di terapeuta o formatore, e di regista, di comando insomma, è uno ed uno solo. Se mai, cercherà di attenuare la mia provocazione, ci possono essere contemporaneamente più terapeuti con ruoli diversi. Possono esserci, soprattutto nella conduzione di gruppi con pazienti gravi (psicotici o borderline), terapeuti con ruoli diversi, ad esempio un direttore, capoterapeuta e uno o più io ausiliari. Ma il direttore di psicodramma è sempre uno. In questa prospettiva la dicitura: La co-conduzione nello psicodramma classico è un modo di dire, un modo di intendersi, comunemente accettato e praticato nelle psicoterapie di gruppo, sia utilizzino l'azione scenica sia quella verbale. E' un modo per comunicare che nelle sessione la direzione sarà scandita da due direttori, con tempi e spazi definiti. Nella situazione del laboratorio che abbiamo proposto, ad esempio un direttore ha condotto la prima parte della sessione, il riscaldamento del gruppo, l'altro ha condotto il protagonista e la partecipazione dell'uditorio, ultima parte della sessione dello psicodramma classico.
Comunque siano le questioni teoriche e metodologiche che ho voluto rilevare, la co-conduzione, l'idea di essere due, piuttosto che uno, induce nel gruppo la rivisitazione di una delle matrici originarie dell'Essere: la coppia, la potenza del due rispetto al singolo, la matrice familiare entro la quale, nel bene e nel male siamo stati.
Come sappiamo i genitori non si scelgono, si trovano, essi sono quelli che sono, o sono stati, nella nostra vita. Piacevolmente o spiacevolmente, la nostra esistenza nasce da una coppia generatrice, creatrice. Alla vita spetta regalarci gioie o dolori legati alle nostre matrici, allo psicodramma riviverle per rielaborarle, adattarle alla nostra vita attuale, modificarle, ricrearle secondo i nostri bisogni.
La proposta della co-conduzione (credo di qualsiasi co-conduzione, ma non vorrei invadere spazi altrui) è la proposta dunque di guardare in faccia un'illusione, un sogno, intendiamoci bene, non per cancellarlo, ma per riappropriarcene, per grattare via le incrostazioni che l'hanno reso inutile, scialbo, grigio, per poterlo rivivere nella vita con tutta la sua forza e pienezza, per ri-sognarlo ogni volta che vogliamo.
 
 
 
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Un pomeriggio di esperienza attiva
 
Gianfranco Verrua

giverru@tin.it
 
 
Un pomeriggio di esperienza attiva (e anche un po' di gioco) nella cappella barocca di San Filippo, nel quadro di Attivamente mi dà lo spunto per alcune riflessioni circa il Teatro della Spontaneità e il Playback Theatre e sulle loro possibili funzioni.
Una funzione di specchio. L'Attività della Mente che viene da alcuni agevolmente riconosciuta a queste forme di azione è quella di specchio. Il che vuol dire la funzione di riconoscimento da parte del narratore (in qualche modo protagonista) nella restituzione soggettiva in forma estetica del materiale proposto (una storia o altro). Uno specchio in qualche modo vivente, fatto da e di altre menti.
Lo specchio del teatro attivo e spontaneo diventa in qualche maniera molteplice e moltiplicante, in quanto tutti i partecipanti (il pubblico, gli attori, il conduttore stesso) sono stimolati a trovare nella restituzione scenica delle parti di sè. Parti non necessariamente coincidenti con le immagini già possedute, spesso deformate o anche in negativo, ma comunque utili per il continuo processo di identificazione che ci fa essere ciò che siamo.
Una funzione di doppio si può attivare nel momento in cui alcune persone danno voce (attraverso la propria soggettività) al non detto inevitabilmente sotteso alle comunicazioni del narratore e del pubblico, dando diverso risalto al materiale e interpretandolo (ciò che è assurdo pretendere di non fare).
A queste funzioni se ne possono aggiungere altre.
Una funzione estetica, per cui, attraverso l'azione scenica il banale e il quotidiano (considerati tali) trovano l'opportunità di diventare qualcosa di bello e godibile, rivelando caratteristiche e possibilità nascoste, inedite e creative, grazie al tipo di sguardo utilizzato per coglierle e restituirle.
A volte questo significa (in termini semplici) guadare le piccole cose della vita con occhi nuovi e scoprire la loro bellezza. Altre volte vuol dire ricorrere ad elementi simbolici e poetici.
Una funzione maieutica, vale a dire l'opportunità di trovare e trarre fuori da se stessi delle verità che sono per forza di cose soggettive e per questo fatto non deboli ma forti, finendo per affermare la sostanza e il diritto di cittadinanza della soggettività di contro ad una forse illusoria pretesa di oggettività.
A questa funzione può corrispondere la sensazione che dentro di noi (nella nostra soggettività) risieda la giusta chiave di lettura del mondo.
Una funzione del senso, vale a dire la possibilità di individuare e percorrere alcuni sentieri nella selva dei possibili sensi delle cose e degli accadimenti. Ovvero la scoperta e l'affermazione di una semplice verità sottesa alle cose: la molteplicità dei sensi possibili.
Dare un senso alla propria storia, alle proprie sensazioni, emozioni e vissuti (e presenza nel mondo) per quanto erroneamente le si ritenga banali è operazione fondante della soggettività e della cosiddetta salute.
Trovare, affermare o riaffermare il senso della propria storia (e delle proprie storie, intrecciate) aiuta a vivere, a volte in termini risolutivi.
Una funzione di incontro, importante prima di tutto all'interno del gruppo che regolarmente si ritrova per sviluppare le sensibilità e capacità necessarie per proporre la restituzione scenica, estetica e psicologica del materiale, sia per contribuire all'azione con la propria soggettività (di singole persone e di gruppo come organismo vivente), sia per rielaborare e far vivere le possibili forme e modalità rappresentative. Questa funzione può rendere in concreto possibile un agire coordinato ed armonico del gruppo.
La stessa funzione è essenziale nel momento in cui il coinvolgimento di un pubblico rende operativa e vivente, imprevedibile e feconda la presenza e l'azione di tutti.
Una funzione di sviluppo della spontaneità, nel senso che nell'atmosfera e nelle attività del gruppo e della rappresentazione col pubblico si possono creare le pre-condizioni per trovare da parte di tutti forme creative e adeguate di azione dinnanzi all'imprevisto.
Come psicodrammatista queste funzioni mi sembrano tutte ugualmente essenziali, e mi pare che senza di esse fare qualcosa di simile al Playback Theatre non valga forse la pena. Questo non toglie che i medesimi strumenti che sono molto flessibili - non si possano usare (con pari senso e dignità) sottolineandone funzioni e applicazioni diverse in altri contesti (ad esempio nel sociale).
Per queste ragioni, il nostro gruppo preferisce denominare la sua proposta non come Playback Theatre in senso stretto, ma come Teatro della Spontaneità al servizio dell'uomo, in omaggio alle prime esperienze di Moreno e ritrovando in queste una forte radice comune con lo Psicodramma. Aggiungendo la parola Nuovo sia per modestia, sia come affermazione di una necessità di rivisitazione e aggiornamento di quelle esperienze fondanti entro un differente contesto, a distanza di un'ottantina d'anni, e uscendo pur a malincuore dall'atmosfera delle Avanguardie teatrali di allora, affascinanti ma irriproducibili.
Il nostro gruppo, con questa matrice e questi intenti, ha trovato in AttivaMente un'occasione per sperimentarsi, oltre che per incontrare (con molto piacere) persone nuove e interessate ai metodi d'azione. Voglio concludere con una citazione e un rigraziamento ai compagni d'avventura che hanno reso possibile l'evento: Raffaella Caputo e Paolo Riva, colonne portanti del gruppo, Tiziana e Lorenza, preziose collaboratrici, e Marco Greco, estemporaneo sostenitore.
 
 
 
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Sapere inedito nella cura
 
Rosa Elena Manzetti

manzetti@iol.it
 
 
Il laboratorio è stato condotto con la modalità secondo cui vengono
condotti i gruppi clinici dal Centro psicoanalitici di trattamento dei
malesseri contemporanei. Si tratta di una modalità che tiene conto di due elementi:
1. L'esperienza psicoanalitica, la cui finalità è la produzione del soggetto. Ne consegue che ogni trattamento, anche dei malesseri contemporanei, è finalizzato a promuovere la salute come espressione del desiderio del soggetto.
2. L'esperienza di piccoli gruppi con un coordinatore, chiamati cartelli, proposti da Lacan come base della sua Scuola di psicoanalisi, con la finalità di mettere e rimettere sull'incudine il sapere prodotto dall'esperienza psicoanalitica, anche quello sedimentato nei testi di psicoanalisti, al fine di esporre i soggetti, uno per uno, nella conversazione, all'eventualità della produzione di sapere inedito.
Tenuto conto di questi due aspetti, ho avviato il laboratorio innanzi tutto esponendomi per prima come soggetto della parola, parola che ha costituito un'offerta, a partire dalla quale molti dei partecipanti hanno potuto formulare una domanda e articolarla.
Ciascuno, a partire dai significanti che circolano, interviene in base alla propria esperienza, per portare al limite il sapere acquisito e trasgredirlo accogliendo il di più che si enuncia con i detti, al di là di essi.
Un sintomo, una certezza, un ricordo può volgere verso il motto di spirito e lasciare posto a un nuovo soggetto, grazie a un intervento sulla *forma letterale* che apre la strada a una nuova significazione, per il fatto di azzerare il significato precedente.
Così possiamo riscoprire, dopo Freud e nel solco della stessa esperienza, il legame del corpo con la parola. Il corpo parla, fa segno, cifra. Esso però non è soltanto il luogo di iscrizione del sintomo, ma anche quello del godimento sessuale. Inoltre il corpo è immaginario. Infatti mentre all'inizio della vita abbiamo un'esperienza spezzettata del nostro corpo, grazie alla visualizzazione del corpo dell'altro possiamo anticipare l'immagine integrata del nostro corpo. Attraverso l'intermediazione dell'immagine cui l'io si identifica, il parlante può assoggettarsi alla parola e ai suoi inciampi.
Con la perdita del segreto e della confidenzialità si guadagna in soggettivazione.
 
 
 
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Tele versus Transfert
 
Chiara Saimandi

chisai@tiscalinet.it
 
 
Perché scegliere un tema apparentemente piuttosto impegnativo quale tele versus transfert per un workshop sullo psicodramma moreniano? Sicuramente perché fondamentale per chiarire la differenza rispetto ad altre forme di psicoterapia di gruppo. Perché scegliere un titolo apparentemente così rimanda alla differenza fondamentale tra forme di psicoterapia di gruppo (e non). Così dopo aver scoperto e sperimentato così è il tele, cioè il ponte invisibile che si crea tra i vari membri di un gruppo, espressione della tendenza dell'uomo a porsi in relazione emozionale con altri, siamo andati ad esplorare un atomo sociale. Si trattava dell'atomo familiare relativo all'infanzia del protagonista.
Ciò ha permesso di sperimentare il lavoro in semi-realtà con l'utilizzo di Io-Ausiliari ed Alter-Ego, e grazie alla disponibilità del protagonista è stato molto coinvolgente.
E' seguita la partecipazione (sharing) del gruppo, che ha evidenziato le profonde identificazioni sollecitate nei presenti.
Quindi si è terminato in modo giocoso con un'attività sociometrica in cui ognuno ha fatto un regalo ad un altro; è stato il modo per misurare le relazioni di attrazione e rifiuto all'interno di questo gruppo nato 4 ore prima in questo produttivo sabato mattina.allo psicodrammatista moreniano? Aiuta nel suo entrare in relazione coi pazienti, e però rimane sullo sfondo-azione di fantasie inconsce su creativo ed operativo così come è stato quest'anno !!!ARRIVEDERCI! (????)
La partecipazione di sei persone (provenienti, come per altri laboratori, da differenti zone d'talia) ha reso possibile lo svolgimento del laboratorio in un clima decisamente intimo.
Abbiamo così affrontato concetti di peso quali tele, atomo sociale, sociometria d'azione e transfert nello psicodramma moreniano in modo semplice, familiare, ma molto intenso.
Ci si è addentrati molto concretamente in essi prima di tutto facendo nascere il gruppo (autopresentazione a coppie quindi al gruppo in inversione di ruolo col compagno); uno dei presupposti dello psicodramma è, infatti, l'incontro, cioé riuscire a calarsi nei panni dell' altro in un vero rapporto di reciprocità.
In un clima leggero sono stati proposti giochi ed attività motorie che favorissero un ulteriore scambio e coinvolgimento spontaneo, per poi arrivare all'individuazione di un protagonista attraverso un riscaldamento mirato. Inutile sottolineare che, a questo punto, l'affiatamento del gruppo ed il coinvolgimento emozionale dei partecipanti erano intensi, quasi palpabili.
Ed è curioso notare che il protagonista scelto dal gruppo era l'unico uomo presente e l'unico piuttosto a digiuno di psicologia, psicoterapia, psicodramma, psico, è molto più ferrato invece in informatica e computers, arrivato al laboratorio in veste di accompagnatore.
La sottoscritta ha continuato, di tanto in tanto, sul modello della sessione aperta moreniana, ad elargire pillole di teoria che rendessero meno ermetico ciò che stava accadendo, con l'obiettivo non secondario di alleggerire l'intensità del coinvolgimento personale (non trattandosi di un gruppo di terapia, ma di un laboratorio dimostrativo).
Chi è allora lo psicodrammatista moreniano: un terapeuta (regista) non neutro, bensì il più possibile reale, diretto e genuino nel suo entrare in relazione, che però rimane in secondo piano, sullo sfondo, quando parliamo di transfert. Sono, invece, gli Ausiliari (cioé gli altri componenti del gruppo) che, non sul piano reale ma di semi-realtà, vanno ad incarnare i fantasmi del protagonista; è su di essi che viene indirizzato ed elaborato il transfert (inteso come la proiezione di fantasie inconsce su di un'altra persona).
Questo, insieme allo sperimentare nel gruppo reale forme nuove, creative e più adeguate di relazione, costituisce il nucleo terapeutico dello psicodramma moreniano.
Concludo con un grosso grazie ai partecipanti ed agli organizzatori, con l'augurio che questo convegno settembrino possa diventare un appuntamento annuale!
 
 
 
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Considerazioni sulla sessione aperta di psicodramma
 
Marco Greco
 
 
La sessione aperta mira a far cogliere lo psicodramma a persone dalle diverse provenienze e dai diversi interessi e competenze.
Moreno ha incontrato ed ha fatto incontrare dovunque la gente più diversa. Dal 1936, però, crea il Sanatorium a Beacon, con annesso il teatro di psicodramma. Esso era strutturato in modo che non vi fosse un pubblico, ma tutti partecipassero all'azione scenica. Questo per dire come l'architettura dello spazio abbia la sua importanza. Il setting come luogo anche un po' magico che da sé contribuisce a riscaldare anche chi lo venga ad abitare per la prima volta.
Dunque la sessione sarebbe appropriato potesse avvenire in un luogo affatto scontato, da scoprirsi a poco a poco, man mano che si sviluppa l'azione nel gruppo.
A proposito di gruppo, quell'insieme di persone che si sono presentate debbono, appunto diventare gruppo. Al riguardo è efficace proporre attività che liberino la spontaneità, mettendo in movimento il corpo, accettando l'incontro attraverso il contatto tonico, provando a ricordare i nomi degli altri.
Il gruppo della sessione aperta nasce e muore in quelle due o tre ore. Al proposito vi è la questione di come si possa far cogliere la complessità dell'azione col gruppo, delle diverse tecniche e funzioni, dell'azione col protagonista in così breve tempo.
Un buon spunto è dato dal fatto che le persone non si conoscono e che occorre metterle in comunicazione profonda. E, contemporaneamente, tra il doppio, lo specchio e l'inversione di ruolo, proporre loro almeno quest'ultima tecnica.
Il formare delle coppie; il racconto di sè; il racconto dell'altro (in inversione di ruolo) al gruppo può risolvere la questione.
Il tema del protagonista è delicato. La conoscenza è ridotta all'essenziale e piuttosto emozionale; la storia del gruppo non c'è. Un'attività possibile, dunque, è quella di proporre un lavoro (solo per alcuni se il gruppo è numeroso) che non preveda una scena elaborata; per esempio il lavoro con una foto interiore del proprio passato nella quale ci siano le persone di un momento significativo.
Dunque ci sono gli attori, l'alter ego, il decentramento dell'Io (il protagonista che fa la foto e che ascolta una frase di ognuno di loro che in precedenza lui ha affidato ad ognuno) la ristrutturazione della scena (io cosa vorresti modificare?).
Chiude la sessione la partecipazione dell'uditorio ai diversi protagonisti, con i saluti del caso.
Tanto diverse spiegazioni circa la metodica psicodrammatica hanno infarcito la sessione, quanto al termine nulla si aggiunge; la magia ognuno la porta con sé il prestigiatore al termine dello spettacolo non spiega i trucchi; ognuno di loro non deve, dunque, spiegare alcunché.
Chi vuole continuare nella magia dell'azione dell'intrapsichico sul palcoscenico psicodrammatico parteciperà ad un gruppo che con regolarità s'incontra.
 
 
 
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Sistema biodanza
 
Paola Tonda
Dario Martelli

tonda.martelli@pop.tiscalinet.it
 
 
La proposta del sistema biodanza consiste in una inversione di tendenza che restituisce, nella relazione, all'esperienza del corpo e della sensibilità la priorità. Viene trasformato in esperienza ciò che viene dapprima percepito in via intuitiva o concettuale. Il canale scelto per attuare questo processo è la danza. Quest'esperienza può permettere di andare alle radici del nostro modo di comunicare, di percepire gli altri e noi stessi in relazione con gli altri. Tutto ciò tenendo conto che la prima conoscenza del mondo, antecedente alla parola, avviene per ciascuno di noi attraverso il movimento. La danza e il movimento, appunto, rappresentano, quindi, una via di accesso privilegiata alla nostra identità originaria, un modo per connetterci profondamente con l'ascolto delle nostre percezioni e delle emozioni del nostro corpo. Inoltre, in tutte le società di tutti gli emisferi, l'uomo si è manifestato, si è espresso con il corpo fin dalle origini. Nelle civiltà pre-letterate la danza è un mezzo essenziale per partecipare alle manifestazioni emotive della comunità, l'espressione corporea di sé è un metodo tipico di manifestazione degli affetti vissuti in comune, diventa un linguaggio sociale ed anche religioso in grado di creare una stretta empatia tra i danzatori e dove sono presenti, con gli spettatori. La biodanza, attraverso le sue proposte, si pone nel solco dei significati di questi movimenti originari, sintonizzandosi, anche, sui significati emozionali ed affettivi che ne costituiscono lo sfondo.
Sistema biodanza, quindi, come costruzione di un tessuto affettivo-relazionale che consente di facilitare il piacere della comunicazione e dello scambio.
Noi riteniamo che l'obiettivo di ogni uomo e di ogni donna, è di stimolare e proteggere le forze vitali che producono salute, a cominciare dalle proprie. Imparare a conoscere il proprio potenziale umano, positivo e sano, a dirigerlo, distinguendo cosa favorisce il processo di crescita da cosa lo impedisce. Queste sono azioni alla base di ogni processo evolutivo
Noi pensiamo che il sistema biodanza possa essere utile come apertura di uno spazio in cui si possa costruire un ambiente idoneo al sostegno emozionale ed affettivo. Uno spazio in cui la relazione d'aiuto, la comunicazione e l'integrazione di gruppo siano valorizzati e facilitati mettendo in moto, così, degli elementi di rinnovamento. Ciò che il sistema biodanza può dare, in questa direzione, è capacità di vincolo, di integrazione affettiva, di connessione e ascolto dell'altro. Si può rendere possibile un riciclaggio vitale in grado di approfondire solidarietà, cooperazione, rispetto e dignità.
Ma danzare assieme in un contesto affettivamente carico può, anche, aumentare la sicurezza in se stessi e l'autostima, creare le condizioni perché possa emergere la propria identità. Il gruppo può diventare fonte di stimoli virtuosi, dando sostegno e sicurezza ai processi individuali.
La biodanza diventa, quindi, un sistema di integrazione e sviluppo dei potenziali umani attraverso la danza, la musica e situazioni di incontro in gruppo. Dove "integrazione" significa coerenza e unità all'interno delle differenti funzioni organiche e psichiche e "sviluppo dei potenziali umani" significa semplicemente permettere una espressione genetica delle nostre immense capacità affettive ed intellettuali.
Il sistema biodanza in dettaglio
Il sistema Biodanza è nato in Cile negli anni 60 ad opera dello psicologo ed antropologo Rolando Toro, tuttora vivente. Rolando Toro ha accompagnato gli avvenimenti della seconda guerra mondiale, ha vissuto i governi militari in Sud America con tutta la loro violenza, ha lavorato con la malattia mentale dentro alle istituzioni. Egli ha sempre desiderato che l'umanità sperimentasse maggiore affettività e tenerezza e che questi sentimenti potessero assumere maggiore importanza nelle nostre scelte di vita. In sostanza rinforzare la nostra connessione con tutto ciò che nutre la vita.
Il sistema biodanza, nelle parole del suo fondatore, è: " Un sistema di integrazione e di sviluppo umano che si basa su vivencias indotte attraverso la musica, il movimento e gli esercizi di comunicazione all'interno di un gruppo".
Sviluppando la definizione che abbiamo appena enunciato si può dire che:
Il concetto di Integrazione è proposto a partire dai diversi livelli di dissociazione manifestati dalle persone che possono manifestarsi sia a livello motorio, che sensitivo motorio, affettivo-motorio o ideo-motorio. Questo può voler dire pensare, sentire e agire in modo dissociato oppure a livello motorio sentire il proprio corpo non come una unità integrata ma in parti isolate. Gli esercizi del sistema biodanza inducono processi integrativi sviluppando il sistema fisiologico delle emozioni, cioè il sistema limbico ipotalamico e tutto ciò porta a facilitare la comunicazione con le altre persone, elevando la qualità affettiva dell'esistenza.
Il termine vivencia non ha una traduzione in italiano e si riferisce ad uno stato psicofisico di pienezza, di integrazione profonda con se stessi, nel momento in cui stiamo vivendo. Questo concetto rappresenta l'esaltazione di ciò che stiamo vivendo "qui ed ora" e può essere avvicinato a come viene usato "vissuto" in alcune forme di psicomotricità relazionale o a come usa lo stesso vocabolo il filosofo esistenzialista Merleau-Ponty.
La musica è un linguaggio universale e nel sistema biodanza ha la funzione fondamentale di evocare emozioni; in concreto rappresenta uno stimolo per fare la proposta di movimento suggerita e un aiuto per esprimere un'emozione integrata al movimento che si ricerca passo passo. La musica deve avere un ritmo organico, viscerale, che funzioni da propulsore emozionale.
Il Gruppo, nel sistema biodanza, rappresenta la comunità umana, infatti la proposta è irrealizzabile individualmente e il processo che persegue risulta effettivo all'interno di un gruppo che funga da stimolo per le vivencias di integrazione e di comunicazione, ma anche da contenitore per quelle di regressione. La presenza degli altri permette al partecipante di sentirsi protetto e, favorito da un ambiente non giudicante e non interpretante, di comunicare all'esterno, attraverso il corpo, le sue difficoltà, i suoi desideri e la sua voglia di cambiamento: in questo modo può metabolizzare le sue ansie e dare gambe alla sua crescita assieme agli altri e non in solitudine.
Perché la scelta del nome Biodanza?
Il prefisso Bio esprime l'idea che al centro dell'universo non vi sia l'uomo ma la vita, infatti esistono, per il sistema biodanza due tipi di percezione: quella biocentrica e quella antropocentrica. La prima stabilisce un modo di sentire e di pensare che prende come punto di partenza la possibilità di vivere intensamente il momento presente (la vivencia) e la comprensione dei sistemi viventi, costituisce una modalità di conoscenza recettiva, è apertura al senso della vita. La seconda è maggiormente frutto dell'educazione e della cultura e pone al centro del suo agire l'uomo. Se l'ottica antropocentrica ci permette, con legittimità, di osservare la nostra storia e la nostra socialità, quella biocentrica permette un vincolo maggiore con le forze e gli eventi che riguardano la vita universale.
La Danza rappresenta, come già si è detto, una delle condizioni innate dell'essere umano. Tra i popoli primitivi, la danza è sempre stata uno dei mezzi più usati di comunicazione, per esprimere l'allegria, la tristezza, per compiere celebrazioni, per esprimere omaggi religiosi e profani. Il processo di civilizzazione ha contribuito in gran parte alla scomparsa di questa manifestazione Movimento - Vissuto a favore della comunicazione Linguaggio - Pensiero.
Le varie applicazioni del sistema biodanza, in questo momento riguardano proposte: per bambini, per adolescenti, per adulti, per gestanti, riabilitazione dell'anziano, Riabilitazione di pazienti mastectomizzate, riabilitazione del malato con morbo di parkinson, malattie mentali, handicappati fisici, incontri di formazione per professioni sociali, incontri per professioni gestionali.
CHI LA PROPONE:
Dario Martelli: Laureato in psicologia all'Università di Torino e abilitato professionalmente all'esercizio della professione. Ha una lunga esperienza di lavoro presso gli enti locali nei settori legati al rapporto con i giovani, alla prevenzione primaria e in campo educativo. Compie il suo percorso di formazione in biodanza dal 1991 al 1994, conseguendo il titolo di facilitatore nel 1995 nella sede formativa di Milano. E' abililitato a condurre, in biodanza, gruppi di formazione, stages di approfondimento con l'ausilio dell'argilla e stages di biodanza e i quattro elementi. Ha facilitato gruppi con adulti sia settimanali, sia stages; ha condotto, inoltre, stages e cicli di incontri per operatori sanitari, nell'associazione "La via degli Artisti" di Settimo Torinese, nell'associazione "Esprimersi" per la prevenzione della depressione e della solitudine ed ha condotto presentazioni per L'associazione italiana malati di parkinson. E' attualmente tutor e formatore della scuola di formazione in sistema biodanza di Torino
Paola Tonda: Ha una lunga esperienza di lavoro, presso gli enti locali, nei settori legati ai rapporti con i giovani e alla comunicazione. Compie il suo percorso di formazione in biodanza dal 1990 al 1993 nella prima scuola europea del sistema biodanza in Svizzera, conseguendo il titolo di facilitatrice nel 1994. E' abilitata a condurre, con il sistema biodanza, gruppi di formazione, stages di approfondimento con l'ausilio dell'argilla, stages di biodanza e i quattro elementi; è, inoltre, specializzata nella conduzione di gruppi per bambini e preadolescenti. Come facilitatrice ha proposto gruppi in alcune scuole elementari e medie di Torino, ha condotto esperienze di biodanza rivolte a genitori e figli, è intervenuta nell'associazione "La via degli artisti" di Settimo Torinese, ha proposto incontri di presentazione presso l'Associazione italiana malati di Parkinson, oltre a condurre innumerevoli gruppi serali rivolti ad adulti. E' attualmente tutor e formatrice delle scuole di formazione in sistema biodanza di Milano e di Torino.
 
 
 
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L'Arteterapia in Italia
 
Roberto Pasanisi
cisat@istitalianodicultura.org
 
 
L'Arte-Terapia (ART) prevede attività di Icono-Terapia e Poiesi-Terapia. Il Laboratorio che abbiamo condotto ad Attiva Mente si è proposto di utilizzare le tecniche di scrittura e di disegno come veicolo elettivo nei livelli dell'esperienza sensoriale, corporea, emotiva, immaginativa e cognitiva-verbale. L'Arte-Terapia trova piena applicazione in tutti quei contesti nei quali la capacità di interrelazionarsi, grazie alla propria creatività, è di fondamentale importanza nella propria vita sociale e professionale. Il Laboratorio si è svolto secondo un approccio integrato con il Training Autogeno (TA): esso, come altre Tecniche di Rilassamento (TR), ha il pregio di indurre un immediato stato di autodistensione psichica necessario per il trattamento di alterazioni neuropsichiche e di reazioni psicosomatiche. Il Training Autogeno, proprio perché in grado di cogliere il rapporto psiche-soma nelle sue ristrette correlazioni funzionali, costituisce un vero strumento terapeutico, che mira al recupero e alla mobilitazione di energie bloccate, allo smantellamento di resistenze ai normali equilibrî vitali, al decondizionamento di patologie già istaurate.
Gli obiettivi del Laboratorio:
1. La conoscenza dei princìpi basilari dell'Arteterapia e delle tecniche di rilassamento
2. L'acquisizione delle basi del metodo autogeno. L'Arteterapia si è finora sviluppata come una tecnica essenzialmente riabilitativa o di sostegno rivolta principalmente agli psicotici od ai minorati, fisici o psichici che fossero, intesa a ridurre gli handicap psicofisici ed a migliorare le capacità relazionali e di socializzazione dell'individuo affetto da una patologia più che nevrotica: essa è stata solitamente praticata da esperti dei più svariati campi: musicisti, artisti, scrittori, drammaturghi, maestri di scuola, restando al di qua o andando al di là della psicoterapia stricto sensu l'unica che qui ci interessi è praticata da uno psicoterapeuta, o meglio ancóra da uno specialista in Arteterapia. Essa è stata sempre priva in Italia sia di un impianto teorico compiutamente definito che la legittimasse scientificamente, sia di una qualsivoglia istituzionalizzazione che ne precisasse i compiti e gli obiettivi, ne chiarisse le caratteristiche precipue (anche contrastivamente rispetto alle altre scuole psicoterapeutiche) e ne stabilisse i limiti, fissando nel contempo una deontologia professionale.
Fissiamo in ART la sigla abbreviativa della disciplina che qui intendiano proporre sotto il nome di Arteterapia, intesa come una nuova scuola psicoterapeutica contrassegnata da tre caratterisitche fondamentali e sue specifiche:
l'uso dell'arte e delle sue tecniche come strumento terapeutico (nelle forme della poiesiterapia, dell 'iconoterapia e dello psicodramma creativo); l'approccio integrato con il training autogeno (TA) nella sua formulazione classica; la costituzione eclettica, che le permette di attingere, sia sul piano teorico che su quello propriamente terapeutico, a diverse altre scuole, segnatamente alla Psicoanalisi, alla Psicologia analitica, alla Psicologia della Gestalt ed all'Analisi Transazionale (AT).
Nella prassi dei gruppi di terapia e di formazione tenuti presso il CISAT (Centro Italiano Studî Arte-Terapia, www.centrostudiarteterapia.org) di Napoli dove esiste una Scuola di Formazione riconosciuta, abbiamo alternato a sedute monotematiche sedute a tema libero: nella prime il soggetto tematico viene proposto dal terapeuta, con l'approvazione del gruppo; nelle sedute a tema libero il soggetto è scelto liberamente dai componenti del gruppo; all'interno di ogni seduta abbiamo distinto tre fasi: la prima è quellla creativa, in cui i componenti del gruppo deve creare l'opera d'arte nella massima libertà; la seconda fase è interpretativa, in cui il gruppo interpreta le opere d'arte dei singoli componenti del gruppo con la supervisione del terapeuta e del coterapeuta; la terza fase è quella analitica, in cui si analizzano le dinamiche che si innescano all'interno del gruppo attenendosi ai criteri della psicoterapia analitica di gruppo.
L'Arteterapia che il CISAT pratica anche on line è elettivamente indicata per individui che soffrono di disturbi ansiogeni od a base depressiva: dalla nostra sperimentazione condotta presso il CISAT risulta nel 60 per cento dei casi un miglioramento complessivo dell' equilibrio psicofisico; ed in particolare una maggiore capacità di socializzazione, maggiore fiducia in se stessi e un consolidamento dell'Io, accertato attraverso reattivi e questionari. Il 40 per cento dei casi non ha riscontrato significativi cambiamenti, in alcuni casi per la presenza di problematiche latenti di tipo psicotico o per mancanza di motivazioni adeguate.
 
 
 
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Seminario di danza contatto improvvisazione
 
Sara Marasso
 
 
Il seminario ha inizio con una presa di contatto del corpo con il pavimento: ogni partecipante è invitato a distendersi a terra, con gli occhi chiusi, per entrare in una dimensione di ascolto e percezione interna.
L'ascolto si configura, già a partire dall'immobilità, come una dimensione attiva, un certo stato di attenzione: propongo immagini che evochino l'abbandono del peso come la sabbia dentro una clessidra, la finta neve che si deposita dentro la palla di vetro natalizia appena scossa.
Educare questa disponibilità all'ascolto è un modo per esercitarsi a rendere l'immaginazione un motore del movimento, a usare le immagini per sostenere, riempire, far respirare il corpo che si muove, che danza.
Il lavoro sulla mobilità segue questa esperienza di rapporto con la terra: la superficie del pavimento infatti, oltre alla possibilità dell'abbandono e del deposito del peso, offre la possibilità di esplorare tutti gli appoggi - non solo quelli offerti dai piedi - per sostenersi e poi spostarsi nello spazio, usando attivamente il suolo.
Sapersi portare è la condizione per poter successivamente sup-portare l'altro apprendendo anche a lasciarsi dirigere, ad assecondare le direzioni che l'altro mi offre attraverso il contatto e con il suo peso.
Il pavimento del San Filippo e il gruppo numeroso non hanno in verità permesso un lungo lavoro a terra, ho quindi proposto, dopo questo primo momento individuale, un lavoro in piedi a coppie.
I partecipanti si sono incontrati e salutati a due a due, ogni coppia cercando attraverso il punto di contatto spalla contro spalla di trovare un baricentro comune.
La stessa proposizione e stata ripresa più volte con l'aggiunta di nuove indicazioni, sempre cercando di focalizzare l'attenzione sull'esperienza del dare il mio peso attraverso il punto di contatto, senza perdere il rapporto con la terra (diventando cosi un peso morto senza alcun punto di orientamento) o al contrario "fare finta" di lasciarsi guidare ma in realtà tenendo (diventando così pieno di tensioni). In entrambi i casi la coppia ha difficoltà a muoversi perché non esiste un'informazione chiara, quella che passa nel contesto di un reciproco ascolto concretamente tradotto da una relazione di peso attivo.
Le molteplici proposte sono volte a superare i blocchi che ognuno sente rispetto all'esperienza del contatto e del dare-ricevere il peso dell'altro, e a rafforzare il rapporto individuale con la terra, muovendosi a partire dal proprio centro; alcuni esempi: una persona tenta di mantenere una camminata con tempo costante l'altra interferisce toccandolo in punti diversi del corpo, due persone in contatto provano a muoversi in direzione opposte se ognuno risponde con lo stesso peso la coppia non si muove ma entrambi sperimentano nuovi punti di appoggio sul corpo dell'altro.
Nel lavoro della contact-improvvisation in definitiva, si impara a percepire il proprio peso e a giocarci nel rapporto con il suolo e nel rapporto con l'altro, attraverso i punti di contatto che vengono man mano sperimentati da due o più partner coinvolti.
Il seminario si è concluso con una sequenza di defaticamento a tre che ha visto alternare, all'interno di ciascun gruppo, il ruolo più passivo di chi si faceva muovere con quello più attivo di chi muoveva e si muoveva.
Prima di salutarci ho proposto un momento di verbalizzazione e scambio dell'esperienza appena vissuta: sono rimasta felicemente sorpresa dalla generosità con cui ognuno ha offerte al gruppo le proprie sensazioni e i propri pensieri a riguardo. Ho trovato arricchenti per il mio lavoro, che pure non nasce e non si colloca in un ambito psicoterapeutico, le numerose riflessioni che ha generato nei partecipanti. Auspico quindi che una tale iniziativa possa avere un seguito.
 
 
 
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